di Avv. Valentina Eramo
Sarà una coincidenza temporale (siamo a luglio, nel pieno dell’estate), ma i casi di risarcimento del cosiddetto danno da “vacanza rovinata” – patito da chi ha programmato una vacanza, per esempio al mare, ma poi ha dovuto rinunciarvi perché qualcun altro gli ha impedito di goderne – sono sempre più ricorrenti negli archivi delle banche dati contenenti gli aggiornamenti giurisprudenziali.
Le condotte dei “guastafeste” non sono state tipizzate dall’articolo 2043 del codice civile – che codifica l’istituto della responsabilità aquiliana – perché possono essere le più disparate possibili. In parole più semplici, le ferie programmate, per esempio, da una coppia di commercialisti – marito e moglie – residenti a Milano, possono essere rovinate dal tamponamento avvenuto in autostrada mentre loro, alla guida dell’automobile, si avviavano nella direzione di Forte dei Marmi fiduciosi di potersi immergere, da lì a qualche ora, nei colori vivi dell’estate, lasciandosi alle spalle l’atmosfera grigia del capoluogo lombardo e, soprattutto, la mole di carte esaminate e istruite per mettersi alla pari con le scadenze fiscali di fine maggio.
In un batter d’occhio i programmi dei due vacanzieri sono stati “rovinati”: il luogo di destinazione si è orribilmente convertito dai lidi della Versilia al Pronto Soccorso della città più vicina all’autostrada dove è avvenuto l’incidente e dove sono stati ricoverati. Il Tribunale di Reggio Emilia, in casi come questo, ha stabilito che il “guastafeste” debba risarcire il danno procurato alla qualità della “vita della coppia” dei commercialisti, avendo pregiudicato la possibilità di trascorrere, insieme, del tempo da dedicare alle passeggiate sulla spiaggia o alla lettura di un buon libro sotto l’ombrellone: “le ferie rappresentano un diritto inviolabile e irrinunciabile costituzionalmente garantito e devono essere considerate non solo quale periodo di riposo dall’attività lavorativa, ma anche quale periodo in cui per il lavoratore è sicuramente maggiormente possibile dedicarsi agli affetti familiari”.
Inoltre, “consentono il soddisfacimento di esigenze di rigenerazione psicofisiche fondamentali del lavoratore, permettendogli di partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale: il diritto al godimento della vacanza non può considerarsi soltanto quale diritto di credito, nascente dal contratto di viaggio e tutelabile a livello contrattuale nei rapporti con l’organizzatore e il tour- operator, ma anche come diritto assoluto tutelabile in via aquiliana.”
I motivi della condanna al risarcimento del danno sono condivisibili ed espressione di civiltà giuridica: il danno risarcibile, hanno precisato i giudici emiliani, è quello “non patrimoniale”, e cioè procurato all’esistenza degli sfortunati automobilisti, compromessa da un sinistro stradale che, in ipotesi, potrebbe anche non aver avuto gravi conseguenze sulla salute fisica, ma su quella psichica sì.
Se il disturbatore delle vacanze altrui deve risarcire il “prezzo del dolore” (i latini hanno coniato l’espressione, icastica, “pecunia doloris”), mi chiedevo quanto dovrebbe pagare, a titolo risarcitorio, il coniuge colpevole di aver “rovinato la vita” all’altro coniuge. Magari per sempre. Se una personalità, minimamente strutturata, può essere danneggiata da una vacanza rovinata (ma è anche in grado di riprendersi dal trauma di una brutta estate, riprogrammando nuove ferie e nuove destinazioni), non è detto che chi sia stato tradito o abbandonato dal coniuge possa rifarsi una vita ed elaborare, superandolo, il trauma patito.
Le vacanze possono essere riprogrammate, magari con l’ausilio di una buona agenzia di viaggi, ma i matrimoni non si riprogrammano in quattro e quattr’otto, ingaggiando, semplicemente, un abile wedding planner. Mi è capitato di conoscere mogli che si sono sottoposte, d’accordo col marito, al percorso della fecondazione assistita, salvo poi apprendere della paternità del coniuge dagli amici. Proprio così: il marito era divenuto padre, ma la madre del bambino era persona diversa dalla moglie.
Ho anche conosciuto mariti che, per anni e anni, hanno guardato al bambino accompagnato a scuola, giorno dopo giorno, poi divenuto il giovane adulto acclamato alla festa di laurea, come se fosse suo figlio, mentre in realtà era stato concepito dalla moglie con l’amante, salvo dichiararlo all’anagrafe quale figlio del marito. Un vero pasticcio, con implicazioni penali non indifferenti, sul piano della responsabilità giuridica della moglie fedifraga, davvero impietosa verso il padre biologico, quello presunto e il figlio.
La lista dei comportamenti contrari ai doveri nascenti dal matrimonio è lunga: i modi per rovinare la vita al coniuge sono potenzialmente infiniti e inesauribili. Uno di questi, divenuto frutto dell’era digitale, è questo: sempre più spesso i coniugi abbandonano l’altro coniuge con un click, e cioè spegnendo il telefono od oscurando la chat, senza dare spiegazioni. Non solo l’abbandono non è preceduto da una dichiarazione di intenti o da una semplice comunicazione formale di buona creanza (“mi dispiace: ho intenzione di chiedere la separazione”), ma l’abbandono è seguito dalla “sparizione”. Colui che ha deciso di mettere fine al matrimonio, infatti, non ha atteso l’udienza presidenziale per rifarsi una vita (udienza ove il Presidente del Tribunale, preso atto della irreversibilità della crisi dell’unione, “autorizza i coniugi a vivere separati”), ma è letteralmente sparito dalla casa coniugale e dalla vita del coniuge, tramutandosi in un fantasma.
Gli esperti parlano di “ghosting” per descrivere la condotta del coniuge “ghost” il quale, anziché affrontare a viso aperto i motivi della crisi coniugale, sparisce. È inutile il tentativo dell’altro di riallacciare i rapporti: il fantasma è un’entità diafana che non risponde al telefono e neanche ai messaggi. L’ aspetto più sorprendente è proprio questo: chi viene abbandonato con questo metodo, di rara crudeltà mentale, non si rende conto del perché. Giura e spergiura che tutto andava bene o, comunque, non ci fossero problemi insormontabili nella coppia. Poi il marito o la moglie sono scomparsi, senza lasciare traccia di sé. Questo comportamento è trasversale, intergenerazionale, non ha confini socioculturali: è praticato da chiunque, e cioè da giovani, persone d’esperienza, nativi e/o analfabeti digitali, uomini e donne. Il trauma da ghosting è devastante perché chi lo subisce si consuma e si lacera giorno dopo giorno.
Basti pensare al dolore della famiglia Orlandi per la scomparsa di Emanuela: sono passati anni, ma il fratello e la madre ancora la cercano né si danno pace perché è come se fossero prigionieri del passato. Da quando la loro congiunta è scomparsa, cercano una spiegazione alla sua assenza che, paradossalmente, si è trasformata in una presenza assillante, costante e quotidiana. Quella di chi non c’è più e, prima di abbandonarti, non ti ha detto dove sarebbe andato e quando sarebbe tornato. “Non sapere” protrae la sofferenza nel tempo e la rende intollerabile. Una pena senza fine.
Tornando al caso del coniuge abbandonato col metodo del ghosting, è pacifico che perda l’autostima e sia condannato a navigare nel limbo – eterno – della ricerca di un perché. Il silenzio inspiegabile del coniuge in carne e ossa, divenuto fantasma, gli impedisce di superare il trauma della separazione e di guardare avanti, gettandosi il passato alle spalle. La vittima è condannata a vivere nella dimensione temporale del passato, perdendo ogni interesse per il presente e per il futuro.
Sappiano i mariti e/o le mogli “fantasmi” che i giudici sono propensi a punirli, anche se il coniuge abbandonato non avrà avuto la forza di coltivare la domanda di addebito nell’ambito della causa di separazione, ma avrà accettato qualunque accordo – anche il più penalizzante – pur di interrompere la mortificazione dei sentimenti. La Cassazione ha stabilito che il loro comportamento integra “gli estremi dell’illecito civile” e dà luogo “al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’articolo 2059 del codice civile, senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento”.
Il Tribunale di Reggio Emilia – che ha condannato i guastafeste a risarcire il danno da “vacanza rovinata” – ha pronunciato, lo scorso 24 giugno, quindi pochissimi giorni addietro, un’innovativa sentenza allineata sia alla sua “storia” di giudice attento al danno non patrimoniale sia agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità inclini a intravedere nella rinuncia all’addebito la scelta obbligata del coniuge debole.
Si invitano i ghosters a uscire dalla nebbia e togliersi il mantello della invisibilità per affrontare, in modo responsabile e maturo, con un confronto dialogico leale e adulto, le ragioni della fine del matrimonio. Leggere la sentenza dei giudici emiliani, qui richiamata, forse potrà aiutarli a rivalutare, criticamente, i propri comportamenti, accettando il rischio di dover risarcire il dolore ingiustamente procurato al coniuge. Senza la minima resipiscenza e senza fare una piega, come se rovinare la vita altrui fosse un mero incidente di percorso.