di Dott. Alice Meggiorin
“Oggi, per molti individui transessuali, l’esibizione del Green Pass resta ancora motivo di imbarazzo e potrebbe sfociare in un coming out forzato“.
Esibizione Green Pass, troppo spesso una lesione alla privacy delle persone transessuali.
L’obbligo di esibizione dell’ormai celebre “Green Pass” ha fatto molto discutere negli ultimi mesi, limitandosi però a dividere la popolazione fra favorevoli e non, e troppo spesso tralasciando di considerare chi vive quotidianamente sulla propria pelle le difficoltà che scaturiscono dalla scrupolosa applicazione della normativa anti-pandemica vigente. Come le persone transgender ancora vincolate alle generalità della loro vita precedente.
Il diritto alla privacy di questi individui, infatti, potrebbe essere leso ove si trovassero costretti a dover spiegare – magari di fronte a sconosciuti, perché in fila per entrare al ristorante, o a bordo di un treno – che il nome che compare sull’app di verifica e sui propri documenti non corrisponde al nome e al genere con i quali la persona è conosciuta socialmente, né al proprio aspetto, al proprio modo di essere, né tanto meno al proprio modo di sentirsi. Situazioni spiacevoli e di disagio, che spesso conducono a coming out forzati, tutt’altro che desiderati. Succede a chi ancora non ha ottenuto la rettifica dei dati anagrafici. Un iter legale che in Italia, quando è possibile, si trasforma in un processo lungo, costoso ed estenuante, che lascia di fatto molte persone sospese con documenti non corrispondenti alla propria identità.
Le associazioni che si occupano dei diritti delle persone trans hanno già provveduto a denunciare a più riprese il problema, chiedendo una modifica delle modalità di controllo del Green Pass, al fine di evitare pubbliche umiliazioni, nel massimo rispetto della riservatezza. Senza contare i numerosi episodi già segnalati, nei quali la persona trans titolare del Pass è stata accusata di essere in possesso di un certificato altrui, o falso, solo perché il nome riportato sui documenti non corrispondeva al proprio aspetto.
Troppe persone non sanno, e dunque non capiscono, cosa significhi per una persona trans essere continuamente e pubblicamente esposta a un contesto sociale impreparato a riconoscerla nella sua dignità, nonché a un contesto istituzionale che troppo spesso la misconosce apertamente.
La popolazione transgender costituisce a oggi, nel nostro Paese, una comunità attiva e resiliente, soprattutto a seguito dell’assunzione, da parte dell’autodeterminazione individuale, di un ruolo centrale nella società contemporanea, nella quale è la percezione psichica a definire l’identità sessuale, indipendentemente dal genere. Al mutamento socio-culturale è seguita, poi, una lenta evoluzione normativa, spesso sollecitata dalle pronunce giurisprudenziali, miranti a garantire visibilità e dignità giuridica alla popolazione transessuale.
L’Italia in realtà, con la legge 164/1982, è stata uno dei primi Paesi a legiferare in merito ai diritti degli individui transessuali e alla possibilità di ottenere la modifica del sesso ricevuto alla nascita e registrato all’anagrafe. Oggi, a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. 150/2011, i procedimenti per la riassegnazione del genere seguono un rito di tipo ordinario con la partecipazione del Pubblico Ministero davanti al Tribunale del luogo di residenza dell’interessato.
Nel giudizio è possibile chiedere l’autorizzazione per l’intervento chirurgico di riattribuzione di sesso e la contestuale rettificazione del nome e del genere anagrafico, oppure è possibile domandare solamente la modifica dei documenti anagrafici. Questa seconda opzione è divenuta possibile a seguito di due importanti sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale.
La Corte di Cassazione (sentenza n. 15138/2015) ha infatti dichiarato, anche se solamente nel 2015, la non indispensabilità del trattamento chirurgico di demolizione degli organi sessuali ai fini della pronuncia di rettificazione di attribuzione di sesso. Si è stabilito che l’interesse pubblico alla definizione dei generi non può implicare il sacrificio dell’interessato alla propria integrità psicofisica ed è, quindi, rimesso al Tribunale il compito di verificare se, prescindendo dall’intervento chirurgico, l’interessato abbia già definitivamente assunto un’identità di genere.