Non ricordo chi avesse detto che il matrimonio è un innesto: o attecchisce o no. Forse questa idea valeva ai tempi di chi aveva elaborato l’interessante e rassicurante concetto. Oggi non è più così. Anzi. Da qualche anno a questa parte, sempre più frequentemente, si assiste al fenomeno dei “divorzi grigi”, cioè di quelle coppie che si dissolvono dopo 20/30 anni di matrimonio, quando si hanno i capelli brizzolati e quando, nella visione botanica del fenomeno, non si può certo dire che il matrimonio non appaia avere attecchito. Capita così che a cinquanta/sessanta anni la vita di una famiglia e dei singoli membri si rivoluzioni dalle fondamenta. Normalmente quella è l’età nella quale, almeno una volta era così, le persone credono di essere arrivate a un punto di non ritorno. La vita si è assestata su case, abitudini, amicizie e programmi che risultano, in linea di massima, definitivi. O, per lo meno, soggetti a modifiche parziali e previste. E’ infatti quello, un periodo della vita, nel quale emergono problemi nuovi: nonni anziani che si ammalano o muoiono; nipotini che portano allegria ma anche esigenze di accudimento; gli stessi coniugi hanno variazioni di salute o turbamenti legati al pensionamento. Per tradizione, l’essere in coppia e il senso di appartenenza alla famiglia, nonché il comune patrimonio, sia affettivo sia economico, sono stati sempre un punto di forza che ha aiutato i coniugi ad affrontare tutte le novità, anche quelle negative. Probabili, peraltro, e messe in bilancio. In questo nuovo secolo, invece, i valori descritti hanno, per moltissime famiglie, non solo perso l’importanza aggregante, ma addirittura acquistato una pesantezza dirimente. Cioè, gli stessi valori diventano propositivi dell’abbandono: ci sono mariti che lasciano le mogli operate di tumore; mogli che lasciano i mariti pensionati e depressi; coniugi che litigano e diventano violenti dal momento in cui la casa familiare si svuota dei figli; mariti che abbandonano la moglie sessantenne per la squinzia ventenne; mogli insofferenti al marito rivelatosi nel tempo ancora più tirchio, e via dicendo. Perduta l’importanza della solidarietà coniugale, scemato nella rabbia e nell’esasperazione il ricordo dei sentimenti comuni, prevalgono i cosiddetti “diritti individuali”, la “ricerca della felicità”, il “bisogno di cambiare”, la “voglia di ricominciare”. A volte le ragioni concrete sono anche valide e giustificabili, perché ci sono coppie che vivono nell’equivoco, nella reciproca sopportazione, nell’indifferenza sentimentale per anni. E’ forse un bene che la verità si faccia largo ed emerga, anche se il costo è, comunque sia, molto alto per tutta la famiglia estesa. Altre volte, invece, la scelta di disfare la coppia non è altro che il punto terminale e inevitabile di una serie di comportamenti dei quali sono colpevoli entrambi i coniugi: per esempio, il tradire e accettare nel tempo i tradimenti, porta certamente, prima o poi, alla separazione. Perché non se ne può più, né di subire né di essere “perdonati”. Comunque sia, oggi la vita è diventata più lunga per tutti: una volta “nel mezzo del cammin” voleva dire circa trent’anni. Oggi è non meno di cinquanta. C’è inoltre l’ossessione del benessere e quello del pen-essere (viagra) che aiutano a mantenersi in forma e pronti all’uso, in questa società caratterizzata dalla competizione sessuale, dalla desiderabilità permanente. C’è il culto della personalità, della propria personalità, che induce a considerare sovente la famiglia una zavorra da lasciare per strada: la felicità individuale è praticamente diventato un diritto e c’è la convinzione che la coppia – soprattutto se datata – non la garantisca. Meglio cambiare, secondo molti. Infatti siamo nell’era delle molteplici possibilità e, quindi, della sindrome da zapping: basta schiacciare un tasto e si cambia canale, casa, città, nazione, coniuge. Senza dimenticare che c’è pure il mito della giovinezza e, dunque, meglio avere una donna di venticinque anni, piuttosto che la stessa da venticinque anni. Oppure, meglio sole che male accompagnate. Ma, alla base di tutto, secondo me, c’è il fraintendimento macroscopico sul diritto alla felicità: tutti crediamo di avere questa garanzia fin dalla nascita; la società non ci aiuta a chiarire la questione, visto che la felicità ci viene promessa col posto di lavoro, come con la nuova auto, la vacanza, la vincita milionaria. Tuttavia, non c’è niente che dia la felicità in sé e per sé, e cercare di raggiungerla cambiando gli oggetti o i soggetti in grado di darcela, significa solo creare la nostra infelicità e quella altrui. Esattamente come fanno i killer seriali di matrimoni che, invece di considerare un’ipotesi di felicità l’opportunità di creare e perseguire, anche a fatica, un progetto di vita in due, non si limitano ad addizionare, ma addirittura moltiplicano gli addendi: alla fine, i conti però non tornano mai. E così si rischia la bancarotta.