Che in Italia non si potesse dir male di Garibaldi, già lo si sapeva. Ma che nel 2010 Garibaldi si fosse incarnato in Belen Rodriguez, era arduo ipotizzarlo. Ho scritto qui, qualche giorno fa, un pezzo nel quale mi permettevo, forse non sommessamente, di censurare la faciloneria con la quale le soubrettine senza talento sniffano cocaina e raccontano di sniffarla, convinte che questa sia la pista di lancio per il successo; ho aggiunto, in sintesi, che a loro si perdona tutto serenamente, forse perché sono belle; ho implicitamente dato la colpa di questa indulgenza al vieto e davvero muffoso gallismo italiano, un po’ tanto indignata dal fatto che verso uomini drogati allo stesso modo, nel passato, anche recente, non ci fosse stato uguale garantismo. Neanche fossi stata Cassandra, nei due giorni successivi, sullo stesso mio Giornale, sono apparsi due articoli di due giornalisti maschi, sedotti dalle pulsanti forme di Belen, che hanno levato scudi infuocati e creste vibranti contro il moralismo e l’eccessiva severità di chi si era permesso di attaccarla. Per lo stesso motivo, e con la medesima scandalizzata reazione, in ben tre interventi radiofonici, altrettanti uomini protettori della starlet ne hanno decantato le grazie, sminuendo contemporaneamente ogni sua responsabilità in rapporto al «problema cocaina», aggiungendo addirittura che fosse da ritenersi lodevole il fatto di avere lei snocciolato i nomi dei suoi cari amici, compagni di «scorribande sulla neve». Dunque, tutti questi uomini, per quanto colti e intelligenti, considerano l’essere belle, sexy e seduttive una sorta di lasciapassare per qualsiasi comportamento. Entusiasti delle sensazioni che Belen regala loro, ma dimentichi che oggi migliaia di ragazzine vogliono diventare Belen e, dunque, una marea di ragazzine, cercando di imitarla, si può sentire autorizzata anche a sniffare. Tanto, forse, la coca non fa niente; forse, aiuta; forse, ti fa trovare amici e lavoro; di certo, nessuno, se la usi, ti disistima. Se tutte queste ragazzine avessero potuto constatare, invece, che l’accostarsi – anche una sola volta – alla droga porta all’immediata rescissione dei contratti pubblicitari, televisivi, cinematografici e al conseguente silenzio mediatico, ebbene, credo che si sarebbe fatto un buon passo avanti nella soluzione del gravissimo problema della cocaina. Il banalizzarlo col perdonismo ad personam, radicalizza il fenomeno, crea nuovi adepti, non suscita l’allarme sociale che dovrebbe provocare. La cocaina brucia i neuroni, spegne l’anima, arma la volontà deviandola verso obiettivi malefici. La cocaina surroga la responsabilità, la fatica, l’impegno personale e conduce inevitabilmente alla violenza. Soggiacere anche una sola volta alle lusinghe di quella schifosa polvere, vuol dire dimenticare la propria dignità e accendere un’ipoteca su tutti i propri valori. Un’ipoteca che non si pagherà mai e porterà al fallimento personale, se non facendosi curare, con fatiche e rinunce dolorosissime, necessarie per imparare nuovamente a ragionare con responsabilità e senza la dipendenza. Dove c’è cocaina c’è violenza, sesso sfrenato, miseria umana, complicità e delazione, reati d’ogni genere fino all’omicidio. Chi difende il consumatore anche non abituale di cocaina, allunga la coda, sempre più lunga, di coloro che sono lì, indifferenti, a guardare lo spettacolo del male. Senza indignarsi, senza tentare neppure un gesto per porvi rimedio; senza pensare al futuro di chi, oggi, deve crescere in questa società malata di incapacità e ipocrisia. In pratica, chi difende anche solo l’idea di un pizzico di droga, è un egoista. Se poi l’alibi è il corpo di una donna, beh, non vorrei proprio conoscere la gerarchia dei valori che ne guida la vita e i sentimenti.