Se la domanda è «vuoi accettare il successo professionale, in cambio di una grave umiliazione?», la maggior parte delle donne cosiddette «arrivate» ha già avuto la risposta nei fatti della propria vita. Purtroppo. Indipendentemente dall’essere o no disponibili a negoziare lo scambio. Non solo in America, dove il dibattito sul tema è in grande fermento, ma in questo momento soprattutto in Europa e, in particolare, in Italia. L’affermazione professionale delle donne nel nostro Paese è un dato in sensibile ascesa solo negli ultimi 20-30 anni. Prima, la notorietà e il successo derivavano dall’esser moglie di un personaggio pubblico, o attrice, cantante o artista in genere. La donna che sceglieva di essere medico, scienziato, avvocato, giudice o addirittura manager, salvo rarissime eccezioni, teneva un profilo bassissimo, vuoi per scelta, vuoi per necessità, vuoi per cultura tradizionale. La famiglia, già formata o da formarsi, in ogni caso, aveva la priorità su qualsiasi altro obiettivo. Questo stato di cose non disturbava gli uomini che, anzi, ne traevano vantaggio sia in casa, sia sui luoghi di lavoro. In seguito, le donne hanno cominciato a sovvertire le loro personali gerarchie di valori, hanno capito che l’autonomia economica vale di più dello status sociale di moglie. La separazione coniugale, in macroscopica progressiva diffusione, con le sue incerte e precarie conseguenze, ha indotto le più dignitose a confidare in se stesse piuttosto che sulla giustizia e sui mariti. Soprattutto, poi, è emersa tutta l’energia e la straordinaria volontà di rivalsa delle figlie della parte più sana della cultura femminista. E con loro, finalmente, il merito e la capacità delle donne, la possibilità di competere alla pari con gli uomini. Senza rivendicazioni o linguaggio guerrigliero. Con l’orgoglio personale del merito e della competenza, con l’intelligenza di capire che la fatica è un onore e non una condanna. In questo percorso personale e sociale, le donne hanno sofferto a lungo, e alcune ne patiscono ancora, di una sorta di tristezza; quella che deriva dall’esperienza dolorosa dell’ingiustizia nel confronto con gli uomini, con ciò che loro hanno potuto avere e hanno sempre nel territorio lavorativo, malgrado regole generali e garantiste che non prevedono distinzioni di sesso. È un sentimento amaro, che delude, ma non crea malanimo verso i colleghi maschi. Perché le nuove generazioni di donne non sono più condizionate psicologicamente dall’invidia del pene, non si sentono danneggiate dalla mancanza di quest’organo sessuale e formano il loro carattere senza la metaforica invidia verso l’altro sesso. Invece, in rapporto di proporzionalità inversa, alla diminuzione dell’invidia femminile verso il maschio corrisponde la nascita e l’aumento esponenziale dell’invidia del maschio verso la femmina. Perché la donna, oggi, minaccia e pregiudica l’ancestrale senso di superiorità dell’uomo. Non si può ancora parlare di invidia della vagina – benché la psicoanalisi dovrebbe essere rifondata a questo punto -, ma certamente per le donne qualcosa di simile al gusto della rivincita c’è. Con il retrogusto amarissimo, però, della vendetta del maschio frustrato, che colpisce alle spalle quando l’invidia, anziché nei luoghi di lavoro, s’insinua, strisciante, velenosa e poi violenta, nella coppia. Non ce la fanno gli uomini a reggere il confronto in casa e fuori con una donna che guadagna di più, ha più successo, è ammirata, ricercata, riconosciuta, lodata. Non arrivano a capire che dovrebbero sentirsi privilegiati per essere stati scelti e per continuare a essere amati e accuditi in esclusiva da una donna pubblicamente ammirata. No. Cominciano col diventare insicuri, perdono l’autostima, si sentono inadeguati. Hanno sbalzi d’umore, alternandosi tra la depressiva autocommiserazione e l’aggressività denigratoria. Svalutano la partner e ne mettono in luce difetti e comportamenti, mai sottolineati prima dei suoi traguardi e del trionfo professionale. Mettono in discussione i sentimenti, la coppia stessa, il progetto di vita. Sino a voler infliggere alla partner una grave umiliazione riequilibratrice. Quale miglior occasione di un vigliacco tradimento? Possibilmente con una donna molto inadeguata – personalmente e socialmente -, magari ignorante tanto quanto disponibile, esperta di maquillage su di sé invece che di ristrutturazioni aziendali o di sofisticate operazioni chirurgiche. Naturalmente giovanissima, ossequiente e ricca solo di tante richieste, soprattutto sessuali. Una signorina inconsapevole delle intervenute conquiste femminili sociali e giuridiche, ma allenata nelle conquiste erotiche. In sostanza l’esatto contrario della scomoda e impegnata compagna di vita. Che sarà umiliata pubblicamente, perché giudicata da tutti sostituibile da una nullità. E così finisce che le donne più apprezzate, senza mai averlo voluto, si trovano ad avere barattato il marito col proprio merito. Questo è il costo altissimo del successo, bellezza!