La casa familiare, al momento della separazione dei coniugi, costituisce, per legge e giurisprudenza, il centro degli affetti e delle abitudini, il luogo che definisce la famiglia e il suo stile di vita. L’obiettivo della legge, nel trauma della diaspora, è di conservare ai figli l’habitat domestico, indipendentemente dalle vicende dei genitori. Nella casa rimane pertanto quel genitore con il quale i figli continueranno a vivere. Ma i genitori spesso sono sciagurati: anziché pensare al disagio dei figli, mostrano la loro “anima casalinga” nel preoccuparsi solo di mettere le mani sulla casa. Vi è stato chi, alle soglie della separazione e approfittando della settimana bianca dei figli con la mamma, ha dolosamente allagato la casa, raccolto arredi e corredi in un magazzino all’uopo locato, e ha poi annunciato ai figli ritornati – attoniti in tuta e scarponi – l'”imprevedibile” disastro per cui la casa sarebbe stata inagibile per i successivi sei mesi. L’ha fatta franca e si è tenuto il suo prezioso immobile, perché il Giudice, basandosi sempre sullo stato di fatto, ha assegnato a moglie e figli il modesto appartamentino preso nel frattempo in affitto. Ma c’è stato anche chi, poco prima dell’udienza presidenziale, ha recuperato la vecchia zia cieca e l’ha introdotta armi e bagagli in casa, inconsapevole l’allibita moglie, per poi sostenere davanti al giudice che l’abitazione non poteva essere lasciata in godimento alla moglie essendo la zia intrasportabile e, soprattutto, pericolosa giacché coltivava sentimenti di odio verso la moglie dell’adorabile nipote. Per non parlare di chi, la notte prima di recarsi in Tribunale, attua un’accurata opera di spoliazione dell’habitat domestico, non limitandosi ai preziosi cd ma asportando quadri, mobili della nonna e persino improbabili elettrodomestici per friggere senza olio. E la fantasia non ha limiti: c’è chi vende la proprietà, chi la ipoteca, chi opera improvvisi sabotaggi. Insomma la “roba”, il patrimonio,per molte persone, conta molto di più di qualsiasi tutela filiale, di qualsiasi onore sociale e personale. Rimanere genitori di riferimento dei figli vuol dire continuare ad abitare nella casa, che appunto, costituisce un diritto dei figli; e proprio loro diventano così lo strumento prezioso sul quale fare pressante leva al fine di scalzare l’altro coniuge e non dargli la soddisfazione di trattenere per sé il bottino conteso. D’altra parte basta pensare al fatto che l’assegnazione della casa ai figli, soprattutto se piccoli, espropria di fatto il titolare del bene anche per vent’anni. Il che aiuta a capire, ma non a giustificare, l’acrimonia e l’aggressività che si canalizzano sull’abitazione domestica. Con la legge 54/06 si è lievemente attenuata l’asprezza dei conflitti giacché sono stati introdotti due principi che temperano l’assolutezza dell’assegnazione: chi vede compresso il suo diritto di proprietà può calcolarne il sacrificio riducendo l’importo dell’assegno; se poi il nido domestico viene “invaso” dal nuovo partner del genitore collocatario dei figli, il proprietario ha diritto di riprendersi il… “bottino”. E’ brutto da raccontare, ma purtroppo i coniugi belligeranti considerano la separazione un “gioco” a somma zero (ciascuno vince ciò che l’altro perde) dato che il territorio perduto da un coniuge rappresenta il trofeo del coniuge vincitore. La cosa triste è che la conquista della casa coniugale spesso costituisce il sigillo estremo della vittoria: chi aveva scritto che la casa è il luogo della pace, il rifugio da ogni torto, ogni paura, dubbio e discordia?