Amato

Mi dispiace ammetterlo, ma Amato ha ragione. C’è una tradizione siculo-pakistana che vuole far credere che si debba picchiare una donna. C’è una “tradizione”: non tutti i siciliani e tutti i pachistani. Ma anche i lombardi, i piemontesi, i laziali, i valdostani, i marocchini, i belgi e gli americani… C’è una gran parte della popolazione mondiale maschile che ancora oggi, con arroganza, fa valere la forza fisica per piegare i deboli alla propria volontà. Solo l’ipocrisia, il buonismo o la diplomazia politica hanno il coraggio di scandalizzarsi di fronte a una dichiarazione che è, invece, un giusto e severo grido d’allarme. La violenza sulla donna è sovente clandestina, le vittime si vergognano a raccontarla. Addirittura alcune sono convinte che sia inevitabile subirla, altre sono incapaci di liberarsene. Quasi tutte mentono e, per giustificare lividi e ferite sanguinanti, inventano improbabili cadute dalle scale o zuffe col gatto di casa. Molti sentimenti della coppia, molte storie anche d’amore, sono sporcati e manipolati dalla crudeltà quotidiana di chi esprime con l’ira e con le mani i suoi reali convincimenti di inferiorità. Inferiorità che solo con la sopraffazione fisica, con il male inferto ciecamente può essere diversamente apprezzata dalla vittima. La violenza, il codice della violenza, attecchisce nel segreto delle case, complici le vittime terrorizzate e piegate al silenzio, e si trasmette di generazione in generazione. La tradizione della violenza, la trasmissione appunto di padre in figlio. E a non interrompere questo odioso fenomeno che invade e frammenta l’identità psichica dell’abusato, collabora dolosamente la cosiddetta cultura sociale: i pensatori che si autodefiniscono intelligenti e che collegano uno schiaffo alla virilità; le forze dell’ordine che, finalmente investite del caso dalla vittima che ha trovato un barlume di coraggio, tentano pretescamente di rappacificare la coppia definendo la questione una “scaramuccia” familiare; i magistrati che pretendono documenti e certificati medici e poi li fanno ammuffire mentre il violento nel frattempo rinfresca ogni giorno le ferite della sua preda con nuovo sangue vivo. Quasi sempre le donne vittime di schiaffi, pedate, pugni, colpi inferti con stracci bagnati, minacce e tagliuzzamenti col coltello, spintoni davanti ai figli, tirate terribili di capelli, resistono con forza incrollabile ai tentativi di chi le induce a denunciare l’aggressore. Perché hanno costruito di sé nel tempo, quotidianamente, un’identità negativa e pensano persino che il loro predatore abbia la ragione e il potere per agire così (come avviene in molte culture anche religiose). Ma anche perché al maltrattamento in casa si aggiunge, umiliante, il maltrattamento psicologico degli operatori giudiziari, disinteressati e negligenti. La violenza all’interno della famiglia esiste eccome: nella tradizione cristiana come in quella mussulmana. Il negarlo è da vigliacchi. E se qualcuno finora è vissuto nel paese di Alice e non si è accorto che tante tragedie cominciano con uno schiaffo e finiscono con l’omicidio, e per questo bisogna volere interrompere e sanzionare la violenza sin dalla prima inaccettabile sberla, è bene che impari a dedicare attenzione agli altri. Anzi alle altre. Chiunque può essere in grado di sospettare o diagnosticare chi è vittima della violenza, se solo si sofferma a valutarne i sintomi: sguardo di chi è morto dentro, atteggiamento circospetto, mancanza di interessi, comportamenti confusi, difficoltà a decidere, disturbi dell’alimentazione, trascuratezza personale. Chi ha senso di responsabilità, deve voler intervenire. Una frase come quella del Ministro Amato, invece di far gridare allo scandalo gli inopportuni sciovinisti di casa nostra, sarebbe potuta essere l’occasione di affrontare questo gravissimo problema in termini concreti. Invece i politici insorgono offesi dalla discriminazione che Amato ha fatto dei persecutori, senza interessarsi responsabilmente alle vittime. E’ perfettamente inutile, infatti, continuare ad aprire e gestire case per donne maltrattate, rifugi per donne disperate, paracadute per donne torturate, e poi sentire che i politici considerano la questione antistorica, o non siciliana o non pakistana. C’è qualcuno di questi politici pronto a giurare che in Sicilia e in Pakistan non si picchiano più le donne? E da dove avrebbe ricavato questa certezza? Sarebbe stato più costruttivo il dire “E’ vero, purtroppo, parliamone però e vediamo fin dove si estende il fenomeno”. Solo così il tema sarebbe stato di interesse generale, e non di personalistica immagine, e si sarebbe creato un dibattito con l’obiettivo della bonificazione dal male. Non so il Pakistan, ma noi certamente viviamo in una società da molti, ottimisticamente ormai, definita “la culla del diritto”. Anche se tutte le regioni italiane hanno una ricca tradizione culturale, tuttavia tutte sono ancora molto ricche di uomini e donne che del diritto e dei diritti individuali non sanno nulla e non vogliono saperne nulla. Non vogliono conoscere parole come rispetto, onore, solidarietà se non rapportandole a vieti e insopportabili canoni malavitosi. Realizzano i concetti di autorità e di potere collegandoli alla forza fisica e alla crudeltà mentale. Per questi cialtroni e delinquenti, il merito e il diritto altrui, come la vita del resto, non hanno significato. Questa è violenza, questa è la tradizione da combattere. Con serietà. Senza l’ironia pedestre di chi ancora si permette di dire che un uomo non è virile se non è capace di dare uno schiaffo. Andate a chiedere a una vittima della violenza quale è il grado di virilità del suo cosiddetto uomo e se lei, donna, è soddisfatta di godere di questa virilità.