Un bimbo di sei anni credeva fermamente ai genitori, quando gli ripetevano di amarlo. Poi loro si erano separati. Ed era arrivato Natale. Quest’anno le vacanze scolastiche erano particolarmente propizie, per gli ex, alle migliori «spartizioni» dei tempi da trascorrere coi figli. Il papà aveva offerto alla mamma di stare lei con il piccolo dal 24 dicembre al 4 gennaio, mentre lui si sarebbe ritagliato gli avanzi, cioè dal 19 al 24 dicembre mattina e dal 5 al 9 gennaio. Appuntamento per la «consegna» del figlio all’aeroporto, dove il padre sarebbe arrivato alle 10 della vigilia, e da dove la madre sarebbe ripartita con lui alle 12. Vacanze interrotte, ma pur sempre lunghe per un ragazzino al quale si poteva, per di più, evitare il disagio dei distacchi nella ex casa coniugale, addobbata di luci, ma dissestata negli affetti. Un programma proposto dai genitori stessi come razionale e generoso. Tuttavia: la mamma – bloccata, a suo dire, da un incidente sull’autostrada – non è arrivata puntuale all’aeroporto, costringendo padre e figlio a bivaccare per ore tra viaggiatori trafelati; il piccolo ha dovuto assorbire i feroci insulti che i genitori si scambiavano via cellulare; la nuova fidanzata del padre – fino a quel momento sconosciuta a tutti, tranne che al fedifrago separatosi prima di confessare – è apparsa dal nulla dotata di bagagli e bambine. Di primo acchito strepitante di allegria e subito dopo seccata per l’intoppo che minacciava le sue prime legittimate e progettatissime vacanze ai Caraibi. Nessuno voleva rinunciare a niente e così è intervenuto l’avvocato, mai così gettonato come a Natale e a Ferragosto, suggerendo – in assenza di nonni disponibili – l’affidamento temporaneo dell’infelice ragazzino al centro assistenza viaggiatori dell’aeroporto. Il piccolo, sperdutosi nell’egoismo dei grandi, è stato accolto così in un presepe tecnologicamente avanzato, ma improvvisato e animato da distratti sconosciuti, senza neppure poter godere il calore animale del bue e dell’asinello. Un bimbo trattato dunque come una palla, da prendere al volo, che i genitori non sanno né lanciare né afferrare. E che, per questo, precipita e rotola nel deserto degli affetti. Mentre, dietro le quinte della sua vita, gli irresponsabili genitori si fanno i precari fatti loro. Ci sono sentimenti, infatti, che hanno il colore e lo spessore della carta velina, a tal punto da provocare vergogna negli sfortunati destinatari delle effimere dichiarazioni d’amore; sono questi i presunti sentimenti, che fanno, prima o poi, esplodere il dolore stupefatto delle aspettative deluse. Ciò diventa molto più grave quando l’oggetto del cosiddetto amore è un figlio, una persona verso cui si assume ogni responsabilità: non solo il mantenimento, con il più o meno alto tenore di vita, ma l’istruzione, l’educazione, la formazione della personalità. La dignità della vita, soprattutto, nella quale ricomprendere il suo «diritto» a essere amato, almeno dai genitori che non dovrebbero avere un figlio per caso o per sé. E tanto meno trovarsi nella condizione di abbandonarlo a se stesso. Non è la separazione a creare cattivi genitori. Ci sono famiglie che trascinano il buio intorno a loro qualsiasi cosa facciano, unite o separate. Ci sono genitori che lasciano crescere i figli nutrendoli di tanto non detto e molto non fatto, eppure sostengono di non separarsi per il loro bene, ma contemporaneamente li gratificano di una vita a mollo nell’infelicità. Altri si separano simulando la civiltà dei sentimenti e poi regalano angosce ai figli quando, alle rituali consegne per il corretto esercizio di visita, comunicano con gli sguardi gli avanzi decomposti dei reciproci sentimenti: sguardi abbuiati, irrequieti, rancorosi, di disprezzo. L’anima fresca e ridente di un bambino si può impolverare di silenzi, può essere stracciata da uno sguardo eloquente, può annichilirsi per la trascuratezza, può impazzire per la menzogna scoperta. L’amore o c’è o non c’è. Non esiste l’amore «a mio modo». Il poco o il tanto, o l’amore sbagliato. I bambini procreati, presi e abbandonati come pupazzi non sono amati per nulla. Così come non lo sono quelli strumentalizzati per interesse, economico o personale; quelli trascurati nella propria specificità; quelli usati come fiore all’occhiello di una presunta valida genitorialità; quelli impugnati come arma contundente verso l’altro genitore. E a tutti questi figli del malamore, del voler bene dichiarato ma che non c’è, il Natale, malgrado la retorica pressante, non porta niente di positivo. Anzi. Per uno di loro, bloccato all’aeroporto dalla zavorra delle incapacità dei genitori, ce ne sono tanti altri imprigionati nel limbo di una famiglia unita, dove regna – collante velenoso – il silenzio degli affetti; e tanti altri ancora nell’inferno quotidiano dei maltrattamenti fisici e psichici. Silenzio, urla, bugie, distrazione, simbiosi possessiva, inadeguatezze, sono comportamenti che si risolvono nella violenza più intima e proclamano, senza attenuanti, la non volontà e la non capacità di volere il bene dell’altro. C’è da sperare che molti di questi bimbi, disancorati dalla sicurezza di essere amati, sappiano trovare, nel dolore di cui si nutrono, un seme magico che forse potrà portare loro frutti inaspettati di rinascita e creatività. Pur senza potere mai eliminare i già vissuti danni collaterali del non amore. Anche, a volte, persino in nome della legge.