Un marito ha chiesto la separazione dalla moglie, con addebito a lei della responsabilità della frattura coniugale, quando ha scoperto che la loro figlia non era stata da lui concepita, bensì fecondata con seme eterologo. Senza che lui sapesse niente, ma anzi essendo stato ingannato dalla moglie che, di nascosto, si era recata all’uopo in una clinica spagnola e aveva poi fatto credere al marito, in realtà sterile, che si fosse trattato di un concepimento naturale. La linea difensiva della donna si è risolta nel rinfacciare il proprio diritto alla maternità e nel giustificare la sua menzogna, perché detta «a fin di bene». Ebbene, la difesa fa acqua da tutte le parti e, anzi, si risolve in un’aperta confessione di colpevolezza e nella prova, dunque, che la signora ha violato i principi e gli obblighi sui quali si fonda il matrimonio. Il matrimonio, sul piano civilistico, è un negozio giuridico bilaterale, un atto personalissimo caratterizzato dalla massima libertà: solo la volontà di sposarsi può vincolare chi decide di farlo, e a tale vincolo si rimane soggetti finché dura il consenso a continuare ad esserlo. Dal matrimonio derivano obblighi reciproci per i coniugi, che si trattano, e sono trattati dalla legge, su un piano di pari dignità giuridica. Gli obblighi sono: fedeltà, solidarietà morale e materiale, collaborazione e coabitazione. Non esiste nessun dovere di procreazione e, dunque, nessun diritto corrispettivo. Questo concetto del «diritto alla maternità» è nato da una interpretazione confusa ed estesa del principio costituzionalmente garantito della tutela della maternità. Ai tempi in cui si discuteva della legge sull’aborto, e al grido «l’utero è mio e me lo gestisco io», fronde cattoliche estremiste e altrettanto estreme fronde femministe, hanno giocato sull’equivoco tra i diritti femminili nascenti dalla maternità (assistenza, tutela, indennità, conservazione del posto di lavoro eccetera) e il diritto della donna a decidere in via esclusiva sulla prosecuzione di una maternità indesiderata. Da qui, secondo me, l’idea assurda e peregrina che vi sia un diritto femminile a procreare, anche come espressione reciproca del corrispondete dovere maschile. E, di conseguenza, la violazione dell’obbligo da parte del maschio sterile che, non potendo soddisfare il presunto diritto della moglie alla generazione obbligatoria, sarebbe da considerarsi inadempiente ai doveri matrimoniali. Così non è, e lo suggerisce il buonsenso stesso. Purtroppo in un’epoca in cui le donne sono molto, troppo, competitive tra loro e ritengono, ciascuna, di avere diritto a ciò che le altre già hanno, anche i figli – oltre al denaro, alla casa, al lavoro – diventano oggetti irrinunciabili del desiderio. A qualsiasi costo. E se l’uomo, cui hanno affidato tutte le loro richieste, non può adempiere, che problema c’è? Si ricorre a un’altra soluzione, convinte come sono, tutte, di agire nel proprio diritto e per l’attuazione di un diritto insindacabile. Se questo avviene nell’ambito della propria libertà personale senza coinvolgere alcun uomo (né per lo status, né per il cognome, né tanto meno per il patrimonio e il reddito) è perfino encomiabile. Ma quando la donna non è sola e ha un uomo cui rendere conto, il suo potere – perché la maternità è ormai un potere e non è mai stata un diritto – ha confini molto ben limitati, perché agisce su un territorio giuridicamente rilevante. Se non c’è matrimonio, i diritti e i doveri dell’uomo in questione devono essere trattati sullo stesso piano di quelli della donna, che pretende di essere madre per privilegio personale. Se questo non succede, quella donna forse non sarà perseguibile per truffa (anche se spesso artifizi e raggiri sono il presupposto perfino di molte nascite «naturali») ma certamente il suo comportamento è tutt’altro che onesto. Se poi addirittura c’è un matrimonio, il concepire un figlio in provetta e il far credere al marito che lui ne sia il padre, è un vero e proprio tradimento. Non inteso in senso sessuale, ma come abietta violazione del dovere di lealtà coniugale. La fedeltà, e l’obbligo di fedeltà, è da intendersi infatti, secondo la legge e la giurisprudenza, nel senso più ampio di lealtà, sì da comprendervi anche la sincerità e la condivisione di tutti gli importanti accadimenti della storia di vita matrimoniale, che i coniugi devono scrivere insieme. Perché c’è un patto, una parola data e l’assunzione di uguali responsabilità. Su ogni questione importante deve esserci schiettezza e accordo. La fiducia nella coppia è un legame intimo e profondo, che impone il massimo rispetto della verità. La menzogna, l’inganno, il nascondimento, il tradimento della fiducia insomma creano nella coppia un alone di sporco che, prima o poi, viene in superficie e disintegra la forza di coesione della fiducia. Fino a imporre la revoca del consenso alla volontà di stare insieme e a giustificare il diritto alla separazione. Peraltro, chi mente, chi viene meno a un impegno morale, a un obbligo assunto anche giuridicamente, è un vile, incapace di parlare, di chiarire, di chiedere. È senza coraggio e onestà. Non ci sono bugie «a fin di bene»: le menzogne nascondono solo i capricci e le inadeguatezze di chi le dice. Se poi la menzogna nasconde la verità di una piccola vita che cresce ogni giorno, è gravissima, perché non offende solo il coniuge, non si limita a distruggere un matrimonio, ma si perpetua nel tempo ipotecando per sempre la relazione della madre col figlio. Nel nome di un inesistente, malinteso e pericoloso, diritto alla maternità.