C’è qualcosa di molto violento in ciò che è successo alla giornalista Annamaria Greco. Scrive un articolo che riguarda un magistrato. Con la velocità della luce, una sua presunta fonte viene indagata per abuso d’ufficio ai sensi dell’art. 323 del codice penale. Quasi contestualmente, viene disposta la perquisizione del Giornale, nonché la perquisizione domiciliare e personale (ribadisco: personale) della giornalista. Il codice di procedura penale all’art. 352 dice “nella flagranza del reato o nel caso di evasione, gli ufficiali di polizia giudiziaria procedono a perquisizione personale o locale quando hanno fondato motivo di ritenere che sulla persona si trovino occultate cose o tracce pertinenti al reato che possono essere cancellate o disperse, ovvero che tali cose o tracce si trovino in un determinato luogo o che ivi si trovi la persona sottoposta alle indagini o l’evaso…”. La giornalista non è l’indagata. Certamente non stava commettendo alcun reato al momento della perquisizione, né stava “evadendo” dal paese, dal carcere o da chissà dove. Era a casa sua con suo figlio, quando, di primo mattino, sono comparsi i carabinieri i quali, dopo avere rovistato, investigato, frugato per tutta la casa, sequestrato persino il computer del figlio, l’hanno fatta spogliare e sottoposta a perquisizione corporale. Al fine, secondo il codice, di trovare su e dentro di lei “tracce o cose occultate pertinenti al reato”. Cosa, per esempio? Un dossier? Una chiavetta usb o un cd? Non essendo l’indagata e non trovandosi in flagranza di reati, all’evidenza la giornalista è stata considerata un luogo, un nascondiglio e testimonianza del reato. Visto che l’unico corpo del “reato”, se esistente, sarebbe potuto essere al massimo il suo cervello, il miglior mezzo investigativo avrebbe dovuto essere individuato nel sezionarle all’improvviso il cervello, prima che potesse cancellare la memoria con altri pensieri. Non osando tanto, per ora, i carabinieri comandati dal PM, hanno ispezionato fin dove possibile il corpo della donna. Trascurando, peraltro, di attendere che lei avesse…smaltito la notizia e così perdendo l’occasione di mostrare il massimo della diligenza investigativa nell’esaminare anche i residui della digestione. Il tutto per un’indagine priva di qualsiasi urgenza; esente da ogni allarme sociale, completamente inutile considerata la notizia già diffusa e l’esistenza di altri indizi comodamente valutabili dal PM. Altro che violenza. E’ quasi paradossale che il reato in questione sia l’abuso d’ufficio. E’ davvero inaudito e scandaloso quanto è avvenuto a danno di una giornalista, donna e madre. Che ha l’unico torto di avere fatto il suo dovere, pubblicando una notizia e proteggendone la fonte. Nel rispetto del suo codice deontologico. Malgrado ciò si è infierito sul suo onore anche di madre e sul suo pudore di donna. In un momento storico in cui la società e i magistrati, in particolare, si dichiarano paladini del corpo delle donne, spesso sbrodolandosi in un bigottismo ipocrita che crea solo confusione, il corpo di una seria professionista viene trattato come un luogo, un sito ispezionabile dalle forze dell’ordine. Senza che lei sia indagata, imputata o nota spacciatrice di ovuli di cocaina. E la ragione sta nella difesa, pronta e immediata, della privacy di un’altra donna. Perché l’una viene considerata intoccabile dalla risonanza del passato, e l’altra toccabile senza alcun passato oggetto di critica? Forse c’è una gerarchia di donne e una gerarchia di privacy. E la dignità, come la legge, non è uguale per tutte. E’ inaudito, illiberale, persecutorio strumentalizzare la rispettabilità di una persona per bene, passando sul suo corpo, nell’ambito di un’inchiesta che la riguarda solo in rapporto al lavoro, che ha svolto con coscienza. L’eco di questa vicenda, non può che risolversi nella intimidatoria censura preventiva. Nella violenza oppressiva del diritto di informazione costituzionalmente garantito. In uno Stato di diritto che, prima, si nasconde dietro un gruppo di donne per colpire l’obiettivo; poi ne protegge altre e, infine, ne sacrifica qualcuna per giustificare il senso della legge. Forse aveva ragione Dostoevskij, quando diceva che alle persone piace la caduta del giusto e la sua ignominia. Ma ormai sono troppe le persone che coltivano il gusto macabro di vedere gli altri, giusti o non giusti che siano, in qualsiasi modo sfracellati.