L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Non, dunque, sul posto di lavoro quale diritto ormai impropriamente urlato bensì sul dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità, un’attività destinata al progresso della società e alla singola autonomia economica. Certamente né i genitori, né tantomeno gli insegnanti, hanno cercato di trasmettere questo principio, basilare, agli studenti che l’altro ieri hanno manifestato in tutte le città italiane. Se così fosse stato, non ci sarebbero stati gli scontri violenti e volgari che hanno segnato quasi tutti i cortei. Peraltro, in un rito stanco e ripetitivo, come ogni anno in ottobre, contro il «cattivo» ministro di turno. Per quanto fisiologicamente ci si aspetti il ribellismo delle giovani generazioni, che è perfino indispensabile alla crescita personale e della società, dispiace che questi giovani non trovino più motivi innovativi di protesta e rivoluzione. Prima di tutto, se consapevoli (?) e convinti dei pretesi tagli all’istruzione, gli studenti avrebbero potuto chiedere – e forse ottenere dall’apparente apertura di questo governo tecnico – un confronto istituzionale. Un confronto per risvegliare i «vecchi», suggerire metodi nuovi, dare un senso concreto al disagio e all’incertezza attuali. Per esempio, si sarebbero potuti dolere dell’inefficienza della scuola e degli insegnanti. Magari raccontando del sistema scolastico americano, basato sulla capacità e sul merito degli istituti scolastici di formare e selezionare studenti così bravi da essere ammessi in certe università, note e ambite proprio per la loro particolare restrizione selettiva nell’accettare aspiranti alla laurea. Magari suggerendo l’opportunità che le scuole italiane più qualificate possano ottenere sovvenzioni private, come in America, detraibili fiscalmente. Magari, ancora, proponendo la necessità della scelta severissima del corpo insegnante e il sistema della supervisione periodica delle singole competenze (ma anche delle possibili strumentalizzazioni proprio da parte degli insegnanti) e tentando così di demolire l’antistorico e maligno diritto al posto fisso statale. Insomma, uno studente che, giustamente e come impone la sua età, si ribella, è credibile solo quando è concentrato sull’obiettivo di apprendere bene, se promuove il nuovo, se propone il merito, se è riformatore di metodi stantii. Non lo è, se protesta ritualmente, sguaiatamente e banalmente contro la casta, l’austerità, i tagli, le scuole private; mescolandosi a centri sociali, no Tav, nulla facenti nel denominatore comune della violenza. Si onorano, invece, la genuina insurrezione giovanile e il diritto allo studio, nonché la futura possibilità di scegliere come lavorare, con la rivoluzione mirata a un ideale, non all’ideologia. Consci tutti che il sangue e il sudore devono essere versati sui libri, per esempio nuovi e diversi, o su programmi di studio alternativi, e non nelle piazze, ai danni della collettività e dei poliziotti che, a loro volta, hanno il dovere di impedire e reprimere la violenza e i disordini sociali. Quell’imbecille di studente che ha urlato al poliziotto «coglione, sei un frustrato di merda», meriterebbe di essere bocciato ogni giorno della sua vita da ogni occasione che gli possa capitare, oltre che punito ultra severamente da un serio magistrato. E, se avesse studiato, saprebbe che persino quel rivoluzionario di Pasolini stava dalla parte delle forze dell’ordine. Purtroppo, si sa, sono il buonismo e il garantismo che hanno deviato lo spirito e i valori, del singolo come della società. La lamentela continua e indifferenziata finisce sempre con l’essere premiata dal pietismo. Quando il lavoro stressa, la protesta ingrassa. Se questi ragazzi – che, invece di una sana, naturale e produttiva rivoluzione, si oppongono al sistema con insulti, confusione e violenza -, sono il nostro futuro, rimbocchiamoci le maniche e continuiamo a lavorare ben oltre i già alti confini della pensione. Del resto, chi ha il senso del dovere sa che il lavoro, più che un diritto è un destino capace delle migliori rivoluzioni.