Lui l’ha massacrata a calci e pugni nella pancia; lei ha dovuto subire due operazioni, è ancora in prognosi riservata ed è senza milza. Lei ora dice di volerlo perdonare e di desiderare di tornare con lui. Perché lo “ama da morire”. Appunto: da voler morire. Non è spiegabile in altro modo la difesa del quasi omicida (“non voleva farmi del male” “non ho lividi in faccia”) da parte di una donna che è finita, grazie alle sue botte, in una pozza di sangue, calpestata nel corpo, nel cuore, nella dignità. Forse la sua anima è già stata uccisa da quell’uomo, che lei ora non vuole né denunciare, né lasciare. Non può, quindi, rendersi più conto che è il perdono a nutrire la violenza: il carnefice si vuole abbeverare di una quantità sempre maggiore di orrore e di strazio, per calmare il suo mostro interno, che s’acquieta di tanto in tanto solo per ricaricarsi di un’energia più feroce. Non è follia quella degli uomini che picchiano: è follia quella delle donne che non scappano al primo schiaffo. Dal ceffone alla mano omicida, il percorso è garantito dalla cattiveria primordiale e ingovernabile di uomini possessivi, rabbiosi, incolti, maledetti, disumani. E le donne hanno molta paura all’idea di restare sole, invece di essere atterrite dagli abbracci di un orco sanguinario. Si vergognano di denunciare, di fuggire, di chiedere aiuto agli altri, invece di sentirsi oltraggiate dal disprezzo di una bestia deforme. ,Non si amano, queste donne dipendenti dalla violenza. Si svalutano, si credono inutili e quasi sembra vogliano comunicarlo al killer, scelto e alimentato da loro, per farsi sopprimere. Oppure dicono di volersi immolare sull’altare sacrificale della maternità: “non posso lasciarlo, non posso denunciarlo, ci sono i figli”. Balle! Così facendo, non si comportano da eroine, ma imprigionano i figli negli effetti devastanti della violenza assistita, coltivano la catena generazionale della brutalità, sfamano le loro creature con lividi, urla e bestemmie quotidiane. ,Più tenaci di Penelope, ogni giorno ricuciono la loro vita strappata, convinte di tessere la tela preziosa della famiglia unita e invece allestiscono i drappi funebri dei sentimenti, dei diritti, del rispetto; spesso della vita loro e dei figli. Queste donne non sono pazze in senso psichiatrico, perché ce ne sono troppe che subiscono, accettano, rimandano, sperano. La violenza domestica è purtroppo un dramma sommerso dal pudore personale, dalla vergogna sociale, dalla paura di non essere protette. L’accoglienza e la tutela sono affidate più ai privati che alle istituzioni. Oltre la metà delle denunce vengono, infatti, con grave colpa, archiviate o abbandonate. Le poche belve che vengono perseguite, tornano presto in libertà, senza essere state rieducate, ma anzi con in bocca il sapore sanguinolento della vendetta. Ancora, del resto, c’è chi insegna alle donne a subire; chi crede che sia normale per un marito picchiare la moglie; chi considera la separazione una violenza ai bambini; chi è convinto che i panni sporchi si debbano lavare in famiglia. ,Dunque si può pensare che le vittime della violenza siano anche vittime di una “cultura” sbagliata. Cultura, paura, vergogna, sacrificio, ma di che cosa vogliamo parlare di fronte al valore della vita e della libertà di essere? Molti di noi, tutti anzi, invece di blaterare di quote rosa, dovremmo rendere le donne, figlie, sorelle, madri, meno deboli nel rapporto di coppia. Potremmo cominciare col dire loro che il diritto a essere mantenute è molto meno significativo di quello a essere rispettate. Potremmo anche suggerire di valutare bene i segni premonitori della sopraffazione in colui che decidono di volere con sé nella coppia: le parolacce frequenti, le urla, gli scatti improvvisi, lo spintone, uno schiaffo, la possessività, la persecutorietà, il controllo, il repentino isolamento, le reazioni inadeguate. E potremmo infine spiegare che le scuse sono pur sempre un patteggiamento, così come il perdono. Il “reato” è stato consumato e confessato ma non sanzionato. Il che vuol dire che il delinquente non ha avuto modo di pentirsi. Dunque ripeterà il gesto aggressivo e lesivo. Inutile illudersi. Il seme della violenza si nutre di compromessi, fino ad acquistare un potere distruttivo nel vuoto d’amore. C’è un momento, anche molto prima della tragedia, per scegliere di scappare: “perché la libertà, uno se la prende, e ciascuno è libero quanto vuole esserlo” (J. Baldwin).