Bocciati ieri e promossi oggi? Il futuro degli avvocati italiani

Su Affaritaliani.it risponde l’esperto in materia Avvocato Valentina Eramo | Studio legale Bernardini de Pace


Il sito Altalex ha dato rilievo all’indagine di un’importante testata giornalistica, il Financial Times, che,  nel 2019, non solo ha elencato  quali e quanti fossero gli avvocati “innovativi” in Europa, ma ha anche spiegato il perché. E, tra le righe, ha suggerito come scegliere i professionisti di fiducia in un mercato dove l’offerta è superiore alla domanda. La classifica dei migliori avvocati non è passata solo attraverso il “contenuto”, ossia l’ambito della loro competenza, ma soprattutto attraverso la “forma”, ossia la modalità di organizzazione del lavoro. L’avvocato “innovativo”, tra gli altri, è quello che ha “ abbandonato le forme tradizionali di organizzazione del lavoro , quando desuete e antiecon o m i c h e , i n n e s t a n d o n e l p r o c e s s o l e t e c n o l o g i e o g g i d i s p o n i b i l i ” .

Quindi, è innovativo l’avvocato che ha optato per la cosiddetta remotizzazione del lavoro e per le consulenze on line, rinunciando ai classici locali in affitto. Il risultato di questa inchiesta giornalistica? L’Italia è stata bocciata: gli avvocati italiani, evidentemente, sono apparsi refrattari sia ad abbandonare le tipiche strutture lavorative, ancorché fuori moda e costose, sia ad accettare tout court la tecnologia. Nessun avvocato italiano e nessuno studio italiano è rientrato, pertanto, nella prestigiosa classifica delle cosiddette “Law Firm”. Questa inchiesta giornalistica non ha (ovviamente) tenuto conto del COVID 19 e della pandemia che si sarebbero abbattuti, nel 2020, come un flagello per l’umanità.

Senza risparmiare gli avvocati italiani e neppure gli altri avvocati europei, quantunque “innovativi”, e quindi votati alla trasformazione digitale. Questi ultimi, in particolare, parrebbero esposti, oggi, a un altro – e alto – rischio di contagio virale, che si somma, ma non si sostituisce, a quello da COVID -19:  la navigazione massiccia on line causata dal coronavirus ha intensificato, infatti, gli attacchi degli hacker. Osserva un attento giornalista de Il Foglio, Pierguido Iezzi: “ la situazione di smart wo rking ha imposto la remotizzazione del lavoro, ma l’attuazione del piano ha avuto le conseguenze di aprire la porta agli attacchi informatici e nuove sfide per la cyber security ”.

Pertanto, il cosiddetto “cyber risk” è diventato, oggi, l’altro temibile rischio da prevenire perché minaccia il dato sensibile che può sfuggire al controllo di chi lo maneggia, con danno irreparabile per il suo titolare. Chi è leso nella riservatezza può, al più, ottenere il risarcimento del danno per equi valente , e cioè tramite pagamento di una somma di denaro, ma non il risarcimento in forma specifica : nessuno può restituire a nessuno la privacy perduta. Quando il dato sensibile corre libero nella Rete, il danno è fatto. Pensiamo all’imprenditore che chiede una consulenza all’avvocato d’affari “innovativo” e gli racconta “on line” di aver nascosto le sue disponibilità finanziarie nei paradisi fiscali, pavoneggiandosi di essere sfuggito alla scure del Fisco. Forse alla scure del Fisco sì, ma alle ingerenze degli hacker no, e ciò quando il sistema informatico (personale o del suo interlocutore) non risulti sufficientemente protetto.

Identiche considerazioni valgono per i rei confessi, quale che sia la violazione commessa (di natura penale o civile). Non sono queste ipotesi peregrine: il Garante della Privacy sta indagando, oggi, sulla fuga di notizie dall’Inps. Qualora il Financial Times replicasse – ora – la sua inchiesta, potrebbe approdare a conclusioni diverse, senza “bocciare” più gli avvocati italiani, colpevoli di essere iper “tradizionalisti”. Le forme organizzative degli studi italiani – strutturati in ambienti che ambiscono a essere confortevoli sia per i professionisti sia per gli assistiti postulanti la difesa giudiziale – possono e debbono essere rivalutate. Disporre, infatti, di ambienti ampi, dove avvocati, praticanti, collaboratori e assistiti potranno conservare le distanze di sicurezza, renderà concretamente possibile evitare non solo il contagio da COVID -19, ma anche il contagio da virus informatico. O, più correttamente, dalle insidie della Rete. “Non dimentichiamoci mai che ciò che ci a p p a r e s i c u r o o g g i n o n è d e t t o c h e l o s a r à s e m p r e .

N o n s o l o : c i s o n o s o f t w a r e d o t a t i d i potenti algoritmi di cifratura, ma ne esistono altri malevoli che ci sp i ano ben prima dell’invio del messaggio, c o m e i t e m i b i l i k e y l o g g e r ” , fa notare Alessandro Bordin, accreditato giornalista della testata tecnologica Hardware Upgrade. Non ha molto senso, dunque, risolvere i contratti di locazione – per sopravvenuta eccessiva onerosità – relativi agli spazi dove gli studi legali ospitano la forza lavoro e ricevono i clienti. Questa decisione affrettata danneggerebbe non solo i locatori, ma, soprattutto, i clienti i quali dovrebbero ricevere consulenze esclusivamente on line: quanti hanno la preparazione tecnica per farlo nella massima sicurezza? Gli ampi locali degli avvocati italiani, dove la tecnologia c’è, ma non è l’unica padrona di casa, sono preferibili, pertanto, agli schermi digitali degli avvocati europei che celano l’insidia informatica. Nulla, pertanto, può sostituire la conversazione tra presenti. Purché a distanza di sicurezza, come ci ha insegnato Roberto Burioni, che, tutte le domeniche sera, si fa intervistare, tranquillamente seduto sulla sua sedia, da un noto giornalista italiano, altrettanto tranquillamente seduto dietro alla sua scrivania. Senza patemi d’animo nei loro sguardi, ma con doverosa accortezza nei loro comportamenti.

Avvocato Valentina Eramo
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