di Avv. Valentina Eramo
Ho letto su questo quotidiano, virtuale e virtuoso, con vivo interesse, questo scoop (complimenti al giornalista estensore dell’articolo e all’editore di Affari Italiani): “è grazie alle autopsie che alcuni medici intelligenti hanno capito che la polmonite era l’ultimo effetto della trombosi dei microvasi polmonari. Intervenendo per tempo, gli usuali anticoagulanti (insieme ad altri farmaci antiinfiammatori) si sono rivelati in grado di rallentare il flusso dei ricoveri ospedalieri annullando quello verso le terapie intensive, riportando l’infezione da Covid 19 al livello di una grave influenza”.
L’intuizione dei medici legali, promotori dell’iniziativa di eseguire autopsie sulle persone decedute “per” Covid 19 o “col” Covid 19, è ammirevole perché ha permesso di acquisire informazioni qualificate sul modo migliore per curare quanti abbiano avuto la sfortuna di contrarre l’infezione, evitando di reiterare i possibili errori del passato: “grazie a queste autopsie si è potuto così scoprire che il primo effetto del Covid 19 è la Coagulazione Intravascolare Disseminata, cioè la formazione di grumi nel sangue e di trombosi. Solo in seguito – e nei casi resistenti alle cure antitrombosi – arrivava la polmonite interstiziale doppia. Abbiamo così capito che i trattamenti fin lì seguiti negli ospedali, basati sulla ventilazione meccanica nelle terapie intensive, erano controindicati”.
Qualora le deduzioni dei medici legali fossero corrette, e cioè confermate da pubblicazioni accademiche, il pensiero non può non andare alle vittime del virus che, purtroppo, potrebbero aver ricevuto, stando a questi recenti test clinici, cure inappropriate da parte dei medici i quali, a loro volta, avrebbero eseguito errate diagnosi e somministrato, conseguentemente, terapie inadatte, se non addirittura controproducenti (capaci di accelerare, in termini prognostici, il decesso, anziché la guarigione). Qualora questa lettura degli eventi – tragici – accaduti negli scorsi mesi di marzo e aprile nonché questa interpretazione – tecnica – dei dati clinici fossero corrette (la formula dubitativa, in una situazione complicata come questa, è d’obbligo), non è escluso che i pazienti o, in alternativa, in caso di decesso, i familiari ed eredi dei defunti, promuovano – e promuoveranno – nuove azioni legali di responsabilità nei confronti dei medici curanti e delle strutture ospedaliere.
Ma medici e manager degli ospedali sono davvero equiparabili sotto il profilo delle responsabilità? Decisamente no. La legge 24/2017, meglio nota come Gelli-Bianco, ha disciplinato il nuovo processo civile sanitario, distinguendo la responsabilità degli operatori sanitari da quella delle aziende sanitarie. Non è facile compendiare una legge così articolata in una sintesi esauriente e intellegibile: mentre la responsabilità del medico è di natura extracontrattuale, salvo che egli abbia reso la sua prestazione in adempimento di un’obbligazione contrattuale direttamente assunta col paziente, quella della struttura sanitaria è di segno contrattuale. Non significa che i pazienti, ricoverati d’urgenza in ospedale, abbiano sottoscritto un contratto col direttore sanitario per essere curati dal Covid 19: purtuttavia, è come se lo avessero fatto, essendo avvenuto il cosiddetto “contatto sociale” tra il malato e la clinica.
La distinzione tra le due tipologie di responsabilità non è accademica, ma sostanziale. Mentre l’azione civile diretta a ottenere dal medico il risarcimento del danno si prescrive in cinque anni, quella diretta contro l’ospedale si prescrive nel doppio del tempo, ossia dieci anni. Il medico può commettere errori dovuti sia alla scorretta o tardiva diagnosi della malattia sia alla scorretta o tardiva identificazione della cura da somministrare al paziente. L’articolo 2236 del codice civile circoscrive la responsabilità medica ai soli casi di “dolo e colpa grave” del professionista sempre che “la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”; altrimenti il medico risponde anche solo per colpa lieve. In ogni caso, la responsabilità del medico presuppone che il paziente riesca a provare questa sua “carenza” nell’esecuzione della prestazione professionale. L’ospedale, invece, risponde di tutte le disfunzioni organizzative, e cioè “manageriali”, che siano state causa o concausa del decesso o del rallentamento nella guarigione del paziente. Salvo che l’istituto non riesca a offrire la prova liberatoria dimostrando la riconducibilità dell’insoddisfacente prestazione professionale a una causa imprevedibile e inevitabile, e cioè alla “forza maggiore”. La pandemia da Covid 19 rappresenta – o potrebbe rappresentare (la prudenza è d’obbligo in casi come questo) – proprio un contesto straordinario che ha impedito non solo al medico di uniformarsi alle Linee Guida o alle buone pratiche dell’“arte medica”, ma anche alla struttura ospedaliera di organizzarsi adeguatamente per prevenire e contenere l’epidemia.
D’altronde la comunità scientifica, colta alla sprovvista dal Covid 19, si è trovata impreparata e incapace di identificare sia i corretti sistemi diagnostici sia i corretti sistemi terapeutici sia, infine, la corretta organizzazione interna. Questa eccezionale difficoltà – diagnostica, terapeutica e organizzativa – ha rappresentato – e potrebbe rappresentare – in termini giuridici, un’esimente che può essere invocata da medici e ospedali, e cioè dal sistema sanitario nel suo complesso. In questa prospettiva, la pandemia può essere letta e interpretata come causa idonea a interrompere il nesso eziologico tra l’azione, l’omissione e la carenza organizzativa – rispettivamente imputabili al medico e al direttore sanitario – e il pregiudizio patito dal paziente (il quale, per esempio, dopo il ricovero ospedaliero, è deceduto o non è guarito perfettamente, riportando lesioni temporanee o permanenti, o, addirittura, ha contratto l’infezione virale proprio in ambito ospedaliero, pur essendo stato ricoverato per altre patologie).
L’equiparazione nella esenzione da responsabilità tra medici e direttori sanitari non convince pienamente. L’assenza di Linee Guida e pratiche consolidate nel trattare i pazienti affetti da Covid 19 escluderà, o dovrebbe escludere, ragionevolmente, profili di responsabilità in capo ai medici. Proprio quei medici – coraggiosi, altruisti e instancabili durante la vigenza del D.P.C.M. #IoRestoaCasa – che abbiamo visto rischiare la vita pur di salvare quella altrui. E abbiamo visto disperarsi quando non ci sono riusciti. Più critica, invece, la posizione delle strutture sanitarie che devono dotarsi di “Protocolli interni” funzionali al contenimento epidemiologico (tecnicamente si chiamano “I.C.A.” le Infezioni da contagio Correlate all’Assistenza sanitaria: sono moltissime e spesso sono dovute all’inosservanza di misure cautelari davvero banali). D’altronde, per organizzare bene un ospedale e farlo funzionare bene non occorre la scienza medica, ma la managerialità. Non occorrono, dunque, misure straordinarie ed eccezionali per prevenire l’insorgere di un’infezione: basta ragionare a contrario per dimostrarlo; a volte, infatti, il paziente si infetta perché i ferri chirurgici non sono stati sterilizzati a regola d’arte o perché l’operatore sanitario non si è lavato le mani con sufficiente cura prima di praticare un qualunque trattamento.
Se quel comportamento omissivo non si fosse avverato, il giudizio controfattuale non porterebbe alla responsabilità dell’ospedale, lassista nel pretendere e controllare l’osservanza delle norme commissive. In altre e più semplici parole: i giudici hanno condannato le strutture sanitarie al risarcimento di danni quando al loro interno non sono state osservate misure cautelari apparentemente banali ma, invece, utili a scongiurare l’“infezione nosocomiale”, nata e contratta in ospedale. Queste considerazioni valgono anche per il Covid 19 che, in fondo, ci chiede poco per evitare il contagio: indossare i presidi chirurgici (al posto giusto, però, non al polso o sull’avambraccio, come si vede fare), mantenere la distanza prudenziale di almeno due metri e/o non meno di un metro e mezzo (inspiegabilmente dimezzata in alcuni locali aperti al pubblico) e praticare l’igiene personale (lavarsi le mani col sapone o gel idroalcolici). Se è vero che “questo poco” è semplice da esigere ex post, e cioè quando il virus ci ha fatto intuire, almeno in parte, come si comporta, è anche vero che l’O.M.S. aveva messo in guardia il mondo intero da tempo. E cioè a partire dal 31 gennaio 2020 quando, appunto, è stata dichiarata la pandemia. Nessuno, però, ha prestato attenzione a questa informazione qualificata. Cosa comprensibile per il cittadino comune, ma imperdonabile per quello non comune. Possibile che le strutture sanitarie non si siano sentite in dovere di rafforzare le misure di sicurezza e orientare il proprio comportamento in termini di prevenzione del contagio da Covid 19? A queste domande risponderà la magistratura. Analoghe domande retoriche possono essere fatte ai politici lassisti nel documentarsi e nel rivisitare i piani anti-pandemia. Saranno gli elettori a privarli del consenso.
Resta vero che l’esame delle norme comportamentali adeguate a prevenire le infezioni (non solo quelle da Covid 19) crea un certo sgomento: l’unico pregio che queste norme hanno parrebbe quello di essere ovvie. Evidentemente non è così. Se esistono, una ragione c’è. Se c’è una prescrizione e se i giudici irrogano sanzioni per l’inosservanza di quella prescrizione, significa che ci sono correlative trasgressioni. Eppure, prescrivere a un sanitario di lavarsi le mani, atteso che vive in un ambiente “a rischio” pieno di germi, batteri e virus, equivale a dire al concertista di poggiare le mani sui tasti del pianoforte per intrattenere il pubblico con gli Adagi di Mozart. Invece, le statistiche dimostrano che il principale veicolo di trasmissione delle infezioni è rappresentato proprio dalle mani, poco o non sufficientemente lavate dagli operatori sanitari. Altre fonti di contagio “suonano” altrettanto “strane”, giusto per restare in tema musicale: non pulire i filtri degli impianti di condizionamento, e cioè dei sistemi di ventilazione o areazione delle strutture sanitarie, equivale ad agevolare la propagazione dell’infezione. Invero, se i Protocolli interni agli ospedali prescrivono regole ad hoc di condotta significa che la loro osservanza non è così scontata, pur rappresentando esse “l’A B C” della buona organizzazione di un buon ospedale. Tra le righe delle prescrizioni legislative e delle condanne dei giudici si intravede il richiamo al giuramento di Ippocrate troppo spesso posposto alle logiche economiche perseguite da quanti, manager di ospedali, pensano prima a massimizzare il profitto e poi, “se capita”, a guarire i pazienti. La pandemia costringe chi di dovere a rivedere queste logiche. Davvero terribili.
* Studio Legale Bernardini de Pace