di Gian Paolo Valcavi
“Sono stata assunta a tempo indeterminato ad ottobre, presso un’azienda di servizi. Periodo di prova terminato ad aprile. Dalla fine di febbraio 2020 purtroppo l’affiancamento e la continuità della prova appunto, è stata interrotta causa COVID. Sono rientrata in azienda (secondo le direttive) il 3 aprile. Unica lavoratrice assieme ad altri due colleghi che non erano legati alla mia mansione. Ho svolto in autonomia e seguendo le direttive del mio tutor; via filo. Ieri mi è stato preannunciato verbalmente che con molta probabilità il 16 agosto si interromperà il rapporto di lavoro. Inizialmente causa Covid e successivamente perché le prestazioni professionali hanno ancora "lacune" per cui la mia mansione può essere ripartita tra i presenti. Cosa si fa in questi casi?”
La Lettrice si trova in una situazione completamente differente rispetto a quelle di cui ci si è occupati in
passato, dove la questione principale da risolvere era relativa al mancato superamento della prova (vera o fittizia). In questo caso la Lavoratrice ha, infatti, superato positivamente la prova, cosa che in un contesto normale avrebbe permesso di rendere stabile il rapporto e di assoggettarlo alle tutele risarcitorie tipiche dei contratti a tutele crescenti, senza la necessità di ulteriori riflessioni.
Il “divieto di licenziamento” emergenziale influisce sul recesso durante la prova?
Oggi, a fronte della legislazione d’emergenza, una simile conclusione deve in primo luogo essere vagliata alla luce della previsione (contenuta nell’art. 46 del D.L. 18/2020) in forza della quale si è stabilito il divieto di licenziamento sino al 17 agosto 2020. Si tratta di una norma transitoria nata per prevenire devastanti effetti sociali connessi al lock-down ed alla conseguente necessità di procedere ad un ridimensionamento della struttura aziendale da parte delle imprese. I possibili effetti di un simile divieto potrebbero essere o di rendere “neutro” il periodo di prova intercorso tra il 17 marzo (data di entrata in vigore del D.L. 18/2020) ed il 17 agosto e, quindi, di procrastinarne la durata sino a dopo Ferragosto oppure di permettere un rinvio della risoluzione per mancato superamento della prova a dopo il 17 agosto. Fortunatamente per la Lettrice la prova è regolata esclusivamente dall’art. 2096 c.c. e non dalla legislazione sui licenziamenti individuali. Infatti, il divieto dell’art. 46 D.L. 18/2020 si applica (tra l’altro) ai licenziamenti in senso stretto, dal cui campo di applicazione è espressamente esclusa la risoluzione del rapporto di lavoro per mancato superamento del periodo di prova. Quindi, il rapporto è divenuto stabile a tutto gli effetti.
Il punto sul risarcimento del danno da recesso illegittimo per i contratti di lavoro stipulato dopo il 7
marzo 2015 (Jobs Act).
Una volta chiarito che la prova sia stata superata, si tratta di verificare quali siano le conseguenze
dell’eventuale recesso per le ventilate “lacune” nelle prestazioni professionali (queste le motivazioni
preannunciate alle Lettrice). Volendo, quindi, seguire l’impostazione preannunciata dal datore di lavoro, ci si troverebbe di fronte ad una ipotesi di licenziamento per motivi soggettivi, cioè per motivi legati ad un presunto inadempimento o adempimento non diligente delle obbligazioni della Lavoratrice. Si tratta di un’ipotesi che presuppone una contestazione disciplinare scritta, con concessione di un termine a difesa (non inferiore a cinque giorni di calendario) perché la Lavoratrice possa esporre le proprie ragioni e giustificazioni. Solo all’esito di tale procedimento, il datore di lavoro potrebbe dare completa attuazione al proprio “piano” di licenziamento.
Nel portare a compimento un tale “progetto”, il datore di lavoro deve rammentare che:
– se il comportamento contestato è espressamente previsto dal codice disciplinare del CCNL come
punibile con una sanzione conservativa, l’utilizzo della sanzione massima del licenziamento
sarebbe illegittimo;
– lo scarso rendimento è un'ipotesi particolare di licenziamento per giustificato motivo soggettivo,
per la cui sussistenza deve essere dimostrata un’evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, provata con un’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei dati globali riferiti ad una media di attività tra i vari dipendenti. Laddove il datore di lavoro ritenesse di non curarsi di tali perplessità, gli effetti di un licenziamento illegittimo potrebbero essere rilevanti, laddove si tratti di datore di lavoro che occupi più di quindici dipendenti.
Infatti, sono previste due tipologie di sanzioni per il licenziamento illegittimo, nell’ambito dei rapporti di lavoro stipulati dopo il 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore della riforma). La prima è applicabile all’ipotesi in cui venga dimostrata (con onere a carico del lavoratore) l’insussistenza del fatto materiale contestato. In questo caso il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di un’indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro.
Nella seconda ipotesi, cioè se non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo
o giusta causa (perché, ad esempio il fatto esiste, ma non è così grave da poter portare al licenziamento), il
giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento, ma condanna il datore di lavoro al
pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a tre mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità. Per la determinazione dell’indennità la norma originaria prevedeva un meccanismo di tipo matematico (tre mensilità per ogni anno di lavoro). Oggi, in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, il bilanciamento tra il minimo ed il massimo è rimesso alla prudente valutazione del giudice, che deve tenere conto non solo dell’anzianità di servizio, ma anche del comportamento delle parti, dalle dimensioni occupazionali del datore di lavoro, dalle dimensioni dell’attività economica e, in genere, dalle condizioni delle parti.
* Studio Legale Bernardini de Pace