di Dott. Alice Meggiorin
“In una realtà sempre più digitale, nella quale i social network costituiscono parte integrante della quotidianità, non si può sorvolare sulle conseguenze che i comportamenti assunti su queste piattaforme – spesso viste dagli utenti come bolle nelle quali isolarsi dalla realtà – riverberano concretamente”.
Il caso più comune è quello della diffamazione. In Italia, questo reato è disciplinato all’art. 595 del codice penale e ricorre quando, consapevolmente, si offenda la reputazione altrui, comunicando con più di due persone. Il reato è aggravato se l’offesa viene arrecata tramite la stampa o con altro mezzo di pubblicità. Infatti, nonostante nel nostro ordinamento viga il principio della libertà di manifestazione del pensiero – sancito dall’art. 21 della Costituzione – che rende ciascuno di noi libero di esternare i propri pensieri e opinioni, questa libertà non può essere assoluta, ma incontra dei limiti, quali la reputazione e la dignità personale del soggetto leso.
A oggi, è pacifico che il reato di diffamazione possa configurarsi anche quando il contenuto diffamatorio venga propagato attraverso social network, blog o siti internet, nonché qualsiasi altro canale telematico. La scriminante è che il post o la storia social contenente le espressioni diffamatorie sia visibile ad almeno due persone, così da integrare i presupposti della norma penale. Ma c’è di più. Arrecare un’offesa su una pagina Facebook, anche con profilo privato se si hanno più di due amici o collegamenti, secondo la giurisprudenza costituisce diffamazione aggravata.
La Corte di Cassazione, infatti, chiamata più volte a intervenire sul punto, ha costantemente affermato che “l’uso dei social network, e quindi la diffusione di messaggi veicolati a mezzo internet, integra un’ipotesi di diffamazione aggravata, […] in quanto trattasi di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone, qualunque sia la modalità informatica di condivisione e di trasmissione” (Cass. del 2017 nn. 50 e 8482, Cass. del 2015 nn. 24431 e 41276). Ne deriva, quindi, che i social non sono da equiparare alla stampa, ma ai mezzi di pubblicità citati dalla norma penale, nei quali rientrano tutti quei sistemi di comunicazione e diffusione – dal vecchio fax ai più attuali social media – che consentono la trasmissione ad un numero elevato di soggetti.
Ciò chiarito, è indubbio però che queste nuove forme di realizzazione del reato facciano sorgere delle problematiche sino a oggi sconosciute, in particolar modo con riguardo all’individuazione dell’autore del reato. Se da un lato, infatti, non vi è alcuna difficoltà nell’identificazione della vittima di diffamazione – in quanto non occorre, come per la diffamazione in generale, che la vittima sia stata individuata mediante nome e cognome, ma è sufficiente che questa risulti identificabile tramite altri elementi indiziari – lo stesso non può dirsi con riguardo all’individuazione dell’autore del reato. Sinora, infatti, la giurisprudenza prevalente sembra ritenere che l’attribuibilità del fatto al titolare dell’account dal quale il commento diffamatorio è stato scritto, non possa costituire l’unica prova, in quanto l’account avrebbe potuto essere utilizzato da soggetti terzi o, addirittura, clonato.
Fino a qualche settimana fa, quindi, a fare la differenza ci pensava il c.d. indirizzo IP (dall’inglese Internet Protocol address – un codice numerico assegnato in via esclusiva a ciascun dispositivo elettronico, al momento della connessione da una determinata postazione, al fine di identificare il titolare della linea – che le autorità inquirenti erano necessariamente chiamate a individuare. Si tratta di un elemento finora considerato di primaria rilevanza, poiché permette di rintracciare con una certa precisione la linea dalla quale è avvenuta la pubblicazione del contenuto diffamatorio, consentendo, altresì, di verificare la corrispondenza o meno a quella riconducibile al soggetto sospettato. A più riprese, quindi, la giurisprudenza ha statuito che, senza l’accertamento dell’indirizzo IP di provenienza, al quale poter riferire il messaggio offensivo, non può scattare la condanna per il reato di diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3, c.p., occorrendo invece una puntuale verifica da parte dell’autorità giudiziaria volta a individuare il predetto indirizzo, per ottenere il massimo grado di certezza possibile.
Tuttavia, a ribaltare la situazione è intervenuta una recentissima sentenza della Corte di Cassazione, la n. 24212, depositata il 21 giugno 2021. I giudici di legittimità, con netta soluzione di continuità rispetto alle precedenti pronunce, hanno, infatti, stabilito che la diffamazione sui social network può configurarsi anche su base indiziaria, tenuto conto della convergenza, pluralità e precisione di dati quali il movente, l’argomento del forum sul quale avviene la pubblicazione, il rapporto tra le parti, la provenienza del post dalla bacheca virtuale dell’imputato, con l’utilizzo del suo nickname, anche in mancanza di accertamenti circa la provenienza del post di contenuto diffamatorio dall’indirizzo IP dell’utenza telefonica intestata all’imputato. Inoltre, viene riconosciuta rilevanza anche all’assenza di denuncia di furto di identità da parte dell’intestatario della bacheca sulla quale è avvenuta la pubblicazione del post incriminato.
Va riposta, pertanto, la massima attenzione alle affermazioni che si esibiscono online su bacheche, stories, post e quant’altro nei social network. Pur essendo un mondo virtuale, le conseguenze giuridiche delle proprie azioni sono oltremodo reali e concrete, laddove si superi la soglia del reato di diffamazione.