Secondo Rashida Majo, responsabile all’O.N.U. di studiare e riferire il fenomeno della violenza sulle donne, in Italia il “femminicidio” è la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni. Il termine femminicidio vuole indicare, con acume onomatopeico, “la distruzione fisica, psichica, economica e persino istituzionale della donna”, solo perché donna. La notizia più raccapricciante è, però, che la violenza domestica, cioè intrafamiliare, cioè di quel piccolo mondo organizzato per gli affetti, rappresenta dal 70 all’87 % dei casi. Il che significa che i fenomeni di crudeltà e sopraffazione del maschio a danno della femmina, si sviluppano nelle relazioni nate come rapporti d’amore, nel segreto delle case; finché i sentimenti vengono sporcati dalla cattiveria e, progressivamente, devastano i pensieri e il corpo della donna, perché l’uomo si è trasformato in persecutore e poi in assassino. A volte anche perché le donne, sventurate, non si rendono conto, non hanno la percezione precisa del problema: subiscono torture psicologiche, mancanza assoluta di rispetto, l’invasione del proprio territorio mentale, abusi quotidiani dell’identità, convinte che accettarli in silenzio sia un sacrificio generoso, anzi doveroso, in nome della “famiglia”. I modelli culturali, antropologici e religiosi resistono, malgrado l’evoluzione sociale e legislativa; e intridono a tal punto la mente delle vittime designate che queste credono, pur soffrendo, che sia normale il trattamento violento del partner. Che in nome dell’amore, mal pensato e mal compreso, non vi sia limite alla tolleranza. Fino a un lungo stupro psichico e poi alla morte. In una brutalità quotidiana che coinvolge i figli, pieni di cicatrici loro stessi e probabilmente contaminati dal virus della violenza, perché costretti dalla madre, inerte, a subire lo scettro del potere e la frusta sanguinaria di un padre imbelle e cattivo. Nessun aiuto sociale, culturale o professionale può essere utile se la donna non ha la consapevolezza della propria dignità e di volerla riscattare, se intaccata. Anche una sola volta. Purtroppo, per ignoranza o per paura, o per forzata sottomissione, anche a superati progetti di vita, poi rivelatisi malsani, la donna accetta o si vergogna di raccontare. E così, timore, ipocrisia e perbenismo la portano a morire, nell’anima se non con il corpo. La crudeltà mentale, la cattiveria, il sadismo sono trasversali e quindi diffusi in ogni classe sociale ed economica. Si esprimono nei gesti e nelle parole e possono individuarsi fin da subito; da quando solo, cioè, si è in grado di salvarsi la vita. Ma le vittime, convinte di amare “troppo” chi è in realtà il loro carnefice, assumono ogni giorno dosi omeopatiche di cattiveria, che aumentano progressivamente fino a provocare assuefazione. L’infelicità e le ferite al corpo, sono quasi sempre annunci di morte: le vittime, invece, le esibiscono come prova di coraggio e di quanto si ama. Come uscirne? La sofferenza non deve diventare una dipendenza tossica e letale. Non bisogna autocompatirsi per assicurarsi un piacere malsano. Bisogna cambiare la prospettiva di quello che si ritiene il proprio destino. Il percorso di rinascita è difficile, ma ci sono tanti centri di aiuto per donne maltrattate. Tuttavia, il primo passo verso la libertà, e la certezza di non essere prima o poi uccise, è verso se stesse: volersi bene, identificare chi può aiutare veramente, non procrastinare il proprio riscatto, accettare anche la solitudine, archiviare la memoria orrenda della violenza sopportata, e ripetersi, ogni giorno, come un mantra, “mai più”. Perché queste dolorosissime statistiche e il fenomeno del femminicidio possano essere sbaragliati dal sapore della vita, è bene ricordare anche che non bisogna mai avere paura di denunciare la prima violenza subìta: la paura della vittima è la droga di cui si nutre ogni persona cattiva.