Se qualcuno doveva tacere, quella era Catherine Deneuve, non Carla Bruni. Invece la bionda, ex numero uno di Francia per bellezza e fascino, ha dichiarato che l’attuale numero uno per fascino e potere, cioè Carla Bruni, doveva stare zitta. Avrebbe dovuto essere cauta la bruna, secondo la bionda, e non firmare appelli a favore di Sakineh, la donna iraniana accusata di adulterio e forse concorso in omicidio e per questo condannata alla lapidazione. E ciò avrebbe dovuto fare, secondo lei, essenzialmente per due motivi: perché un personaggio noto non deve esporsi più di tanto, e perché il suo passato non è del tutto morigerato. Dunque, secondo la Deneuve, sono autorevoli e non a rischio solo le suore di clausura? Carla Bruni ha fatto, invece, un grande gesto, di obiettiva forza morale e culturale. Ha fatto quello che Michelle Obama o la Merkel non hanno neppure pensato; ha agito con determinazione, mentre le nostre parlamentari chiocciavano nel pollaio scandalizzate per la presunta lapidazione giornalistica di una spavalda giovanotta, conquistatrice di patrimoni e attempati compagni. Del tutto indifferenti, tuttavia, al fatto che nel 2010 una donna non solo è condannata a morte, per adulterio, ma addirittura col mezzo della lapidazione. Cioè, interrata verticalmente in una buca fino alle spalle, per essere colpita da pietre sulla testa fino a morirne. Per una questione, oltretutto, che dovrebbe riguardare solo lei e suo marito e non dovrebbe interessare minimamente la società e, tanto meno, la giustizia, soprattutto se sommaria. Il mondo avrebbe dovuto sollevarsi con più indignazione contro l’annunciato crimine iraniano. Tutte le donne di potere dell’universo avrebbero dovuto solidarizzare e sostenere a gran voce la salvezza di Sakineh. Tutte le donne vicine a uomini di potere avrebbero potuto e dovuto convincere i loro capi a individuare alleanze e strategie politiche, utili a evitare questo obbrobrioso crimine. È inaccettabile la pena di morte che ancora imperversa, oltre che in Iran, negli Usa e in Cina. Ma è insostenibile per la nostra coscienza che venga decretata per una colpa d’amore: tutti nel mondo siamo potenziali o effettivi adulteri; tutti dovremmo forse essere lapidati? Né possiamo tollerare che ciò avvenga in un altro Paese, solo perché c’è una cultura diversa e una legge folle. Ebbene, Carla Bruni ha levato la sua voce, ha firmato un appello; si è indignata, ha reagito, ha tentato di far cambiare le cose. Ha innescato la speranza. Secondo la Deneuve non avrebbe dovuto, perché popolare e, a maggior ragione, avendo un passato che gli iraniani le hanno poi rinfacciato. Ma quale passato? Non molto diverso da quello della Deneuve, peraltro. Anzi, la Deneuve avrebbe dovuto solidarizzare con Sakineh più d’ogni altra: lei stessa è stata adultera e, quando il padre di sua figlia è morto, ha lasciato una vedova che non era lei. Per di più, sia la bionda sia la bruna attrice, rappresentano un modello per almeno tre generazioni di donne. Sono belle, brave, libere, cambiano uomo quando vogliono, sono molto amate, ricche e famose. Per gli iraniani questo significa essere prostitute, perché in quel Paese incivile la dignità e l’onore delle donne stanno nell’essere coperte da un velo e nel fare le schiave degli uomini. Nell’accettazione mortifera del proprio destino di genere, senza poter dare voce al cuore e al cervello. In Italia le nostre colte e zelanti femministe sono capaci solo di scandalizzarsi, fino a impedirla, per una gara di bellezza tra aspiranti cameriere in un bar. Un concorsino sessista quanto si vuole, discutibilissimo, ma proposto a donne libere e maggiorenni, capaci di decidere se parteciparvi o no. Come quello di Miss Italia, del resto: occasione di impiego per donne altrettanto libere di misurarsi col corpo, anziché con la testa. Le nostre femministe non distinguono più tra morale e moralismo, se hanno saputo starnazzare sul maschilismo da bar e non hanno fatto e detto nulla sulla violenza inaudita del progetto iraniano. Come del resto Catherine Deneuve, che ha preferito fare la maestrina di galateo con quella che è innnegabilmente la sua rivale mediatica francese – più giovane, più forte, più autorevole – anziché usare la potenza della popolarità per sferrare un carico da undici agli aguzzini di Sakineh. Eppure Catherine sembra una donna amante della vita e dell’amore, visto l’impegno che mette nel contrastare sul proprio corpo e, soprattutto, sul viso le aggressioni del tempo. In questo, obiettivamente, troppo aiutata dal suo chirurgo plastico. Che forse, a ben vedere, perché accanito e senza limiti, meriterebbe la lapidazione, almeno dimostrativa e virtuale.