Le separazioni in Italia ogni anno sono oltre 80.000. Delle quali, circa 70.000 si risolvono consensualmente: una parte, direttamente negli studi legali per poi essere ratificate nei Tribunali; un’altra, dopo l’inizio del conflitto giudiziario, si trasforma in transazione grazie agli eventi processuali, ai buoni uffici di autorevoli e saggi magistrati, alla opportuna resipiscenza dei coniugi combattenti. Le circa diecimila che restano, affollano gli scranni dei giudici, coi loro fascicoli sempre più consistenti, e finiscono in sentenza. Dopo anni di litigi, testimoni e perizie tecniche; a volte dopo tre gradi di giudizio e con il moltiplicarsi di cause satelliti: sequestri, pignoramenti, revoche di donazioni, accertamenti di partecipazioni societarie, addirittura contestazioni della legittimità dei figli. Con l’ovvia conseguenza che diecimila mariti e diecimila mogli investono per anni tempo e denaro nell’obiettivo di abbattersi reciprocamente, con lo scopo preciso di sentirsi, ciascuno, vittorioso della guerra intentatasi. Una guerra che, dimenticano entrambi, è pur sempre cominciata con un bacio. C’è dunque da chiedersi come sia possibile che, due persone unite un tempo dalla più profonda intimità fisica, molte di loro unite nel tempo, anche futuro, dall’indiscutibile genitorialità, tutte, comunque sia, partecipi del comune patrimonio affettivo, abbiano la voglia e il coraggio di fronteggiarsi con tanta malevolenza e così a lungo. Le ragioni sono molteplici e pressoché infinite. C’è chi, per esempio, ha una fede profonda e considera il divorzio un peccato mortale, perché infanga il sacramento del matrimonio. Qualunque sia il grado di vivibilità del matrimonio stesso. Dilatare con tutti i sistemi possibili i tempi della separazione, significa postergare significativamente il momento del divorzio. C’è chi ha un carattere terribile e non riesce a perdonare la scelta del partner: un lungo processo può servire per non darla vinta, per mettere in piazza tutte le colpe dell’altro, per autoconvincersi dell’inevitabilità della chiusura di un capitolo di vita. C’è, ancora, chi crede di dover dare meno di quanto gli venga chiesto e chi aspira ad avere di più di quanto gli viene dato. Questi tipi di duellanti infaticabili sono certo i più numerosi. Battagliano per una differenza di 1/2000 euro all’anno ma anche di 50/100 mila, senza rendersi conto che i costi legali, negli anni, non premiano il risparmio o il guadagno ipotizzati, a meno che non vi sia un gran divario tra la domanda e l’offerta in discussione. Ci sono altri che litigano per i figli: chi li vuole troppo e chi non li vuole per niente; ma queste contese hanno la naturale conclusione con il raggiungimento dell’autonomia, prima di pensiero e poi economica, dei ragazzi. Dopodiché il gioco non vale la candela. Ci sono, tuttavia, quelli che dicono di combattere per il bene dei figli che, invece, costituiscono l’alibi per mascherare interessi personalissimi: status sociale, aziende da gestire, casa da occupare a vita, fastidi e persecuzioni da infliggere alla nuova coppia che intanto il, molto, futuro ex ha formato. Ma sono frequenti anche quelli che vogliono continuare a gestire il potere sulla coppia che nel frattempo si è dissolta: mantengono caldo il conflitto giudiziario per potersi dire e dire – come Giucas Casella – “finirà solo quando lo deciderò io”. In genere questi impongono ipotesi di accordi consensuali che sono obiettivamente inaccettabili per la disparità di trattamento o per le clausole accessorie, neppure velatamente, vessatorie. Finché, uno dei contendenti nel tiro alla fune, non rimane con la corda molle in mano quando l’altro ha perso interesse al gioco e l’ha lasciata cadere. E la causa finisce là dove è cominciata. Ci sono poi molti che si affidano ad avvocati inesperti ma capaci di promettere loro obiettivi davvero irraggiungibili e spacciati come sicuri: è facile che la rabbia e il dolore della separazione, e l’ignoranza, preferiscano trasformarsi in speranza di vittoria, piuttosto di essere percepiti nella loro quotidiana velenosità. A volte, i malcapitati coniugi, finiscono nelle grinfie di legali che hanno tra loro qualche conto in sospeso da saldare: in tali casi, non è più l’animosità delle parti, ma quella dei loro avvocati a farla da padrona e a segnare il tempo della giustizia. Spesso lunghissimo, perché tra alcuni operatori del diritto vige il brocardo “chi la dura la vince”. Invece, nella nostra giustizia, è vero proprio il contrario. C’è infine una categoria di coniugi separandi (in prevalenza mogli, per ora) che rema contro la possibilità di concludere in tempi brevi la vicenda della separazione. La strategia è semplice e, a volte, anche vincente. Si dà, dapprima, per scontato che la separazione debba essere consensuale, per cui, almeno per un anno si coltivano in tal senso le trattative. Con calma e pignoleria. Alla fine, trascorso un preventivato lasso di tempo senza che sia completato il quadro dell’accordo, ci si impunta su una condizione che – si deve essere certi – l’altro coniuge non accetterà. Qualche altro mese per la valutazione, finché gli incontri tra le parti si interrompono. A quel punto, trascorsi altri mesi funzionali alla redazione del ricorso, si aprono le schermaglie giudiziarie. In genere il Presidente del Tribunale prende a cuore la storia di due che sembravano quasi prossimi a un accordo; dunque, comincia il balletto fuori e dentro la stanza del magistrato che, con proposte mediatorie, si illude di arrivare là dove i legali non erano riusciti. Qualche mese di rinvio per riflettere e poi qualche altro per riflettere sulla riflessione. Di mese in mese, sono passati due anni e, di fatto, il processo non è neppure iniziato, perché fermo alla fase presidenziale. Se ci fosse stato un accordo sottoscritto a suo tempo, mancherebbe solo un anno per far dichiarare il divorzio. Così, invece, tra i due trascorsi e gli almeno tre a venire, tra la fine della convivenza e quella del matrimonio si contano non meno di cinque anni. Forse di più, se ci si affida a ulteriori strategie collaterali, più sofisticate e tenute segrete dai legali esperti. Con queste modalità comportamentali, in cinque /sei anni può avverarsi, con più probabilità che in tre, il malcelato obiettivo del coniuge stratega: di assistere cioè al decesso dell’altro. Soprattutto se non di primo pelo, di non ferrea salute e dedito, per esempio, ad attività, anche fisiche, rischiose. Se poi questo è fumatore o alcolizzato o avvezzo a immersioni subacquee o viaggi intercontinentali, le probabilità di successo del temporeggiatore, cioè di rimanere nell’asse ereditario di colui che non sarà mai ex, aumentano in misura esponenziale. Ci si chiede in questi giorni, come mai stia durando così a lungo la contesa tra Silvio e Veronica: in fondo si tratta solo di trovare un accordo economico. Tra loro sembra davvero paradossale che non ci sia stata la possibilità di una mediazione. Si parla di richieste e offerte davvero uniche, non rientrabili nella media delle discussioni economiche coniugali. Ma neppure loro sono nella media. Potrebbero trovare più di un punto di incontro. Nessuno ovviamente si può esprimere, non conoscendosi i dati. Tuttavia: a) c’è una reciproca domanda di addebito; b) se fossero provate e accolte entrambe, l’unica a rimetterci sarebbe la moglie (che avrebbe a quel punto diritto al solo sostentamento alimentare, ove non avesse mezzi propri); c) se fosse sentenziata la colpa solo del marito, non per questo egli sarebbe tenuto a pagare cifre più alte o a regalare case. Dunque, che senso ha volere un lungo processo? Ma soprattutto, chi dei due lo vuole così lungo? Chi può avvantaggiarsene? E perché? Ai posteri, l’ardua sentenza.