Che dire di questa storia di presunte molestie al comune di Milano? In verità non si può e non si deve dire niente, perché i fatti sono sub iudice. Ma forse, addirittura, no. Nell’attesa può avere un senso esaminare lo scenario del politicamente corretto o scorretto in tema di, chiamiamola così, aggressività sessuale. Mi ha sempre fatto orrore l’argomento principe della difesa di molti stupratori negli anni ’70, quando, in piena rivoluzione femmminista, gli avvocati dell’imputato sostenevano che fosse stata la vittima ad autodeterminarsi il danno lamentato provocando l’assalitore con sguardi e abbigliamento audaci. Era tanto più ingiusto questo generico e malevolo attacco alla donna, in pratica vista come un diavolo tentatore desiderosa di essere violentata, quanto più – allora – era davvero difficile per le donne denunciare un reato sessuale. Il farlo, le metteva già in condizione di ipotecare il decoro pubblico e la dignità personale: non solo perché, allora, ancora sopravviveva il mito della verginità – perduta in qualsiasi modo la quale non si era più «sposabili» – bensì anche perché le donne non avevano coscienza che libertà e dignità fossero sì valori e diritti assoluti, ma personalissimi prima ancora che di rilevanza sociale. Dunque, i panni sporchi, l’indignazione e il dolore non dovevano oltrepassare la soglia pericolosa della denuncia del reato. Il rimanerne al di qua consentiva almeno di salvare le apparenze. Chi aveva il coraggio della denuncia infatti, diventava un’altra volta vittima, non del violentatore, ma di chi lo difendeva. Società maschilista compresa. Ne abbiamo fatta di strada in quarant’anni. Anche troppa, considerato che le denunce a contenuto sessuale si sono moltiplicate. È lecito domandarsi, dunque, se il panorama maschile sia stato sempre così squallido e triviale e se, quindi, il coraggio delle donne lo stia svelando; oppure se vi sia una pericolosa, per quanto non generalizzata, strumentalizzazione femminile delle leggi introdotte a specifica difesa della donna. La prima alternativa mi sembra difficilmente ratificabile: oggi i maschi hanno a disposizione chiunque e qualsiasi cosa per soddisfare le ingovernabili libidini che, quarant’anni fa, molto più di oggi, capitava fossero compresse per poi esplodere con brutale violenza; ma allora c’era il limite obiettivo della ridotta libertà sessuale. Che oggi, invece, impera, soprattutto a favore e contemporaneamente a danno proprio delle donne. Le quali, a volte spensierate, altre maliziosamente ingenue, altre ancora strategiche, hanno saputo fare del sesso il loro potere. Che impugnano fiere, per agganciare, per avere, per pilotare, essere qualcuno, raccontare, arrivare, vendicare e perfino denunciare. Le vittime, all’evidenza, sono gli uomini: storditi e annebbiati sempre da quel luogo nel corpo femminile, dal quale il primo giorno sono partiti e al quale anelano ogni giorno ritornare. Una debolezza genetica . Che è diventata la forza delle donne più spericolate, ma anche l’alibi opportunistico di molte altre. Le une e le altre sanno che l’uomo è indifendibile sul punto: la parola dell’una non vale quella dell’altro. La società è portata ancora a credere allo stereotipo dell’uomo violentatore e molestatore, invece di dover ormai ipotizzare la donna stupratrice o bugiarda. Con ciò non voglio difendere i bruti schifosi e triviali: ce ne sono ancora e troppi, che offendono per sempre l’anima e il corpo di una donna solo perché donna. Sono senza giustificazioni e meritano il massimo di una pena certa. Tuttavia, chi vuole giudicare, per mestiere o per attitudine, deve tenere conto di una nuova categoria di carnefici, pericolosissima, quella delle mantidi litigiose: donne che seducono per ricatto, vendetta, interesse. Se ignorate, strombazzano egualmente di essere state molestate; se «gratificate» da uno sguardo malandrino o da uno di quei patetici e deteriorati apprezzamenti al corpo (che gli uomini si tramandano tra loro nelle generazioni) immediatamente se ne sponsorizzano con denunce penali o «semplicemente» mediatiche, per assumere il ruolo sontuoso di vittima: un modo come un altro per dichiararsi «femmina desiderabile». Anche se bruttina o insipida. Siamo circondati da queste mantidi litigiose e gli unici che ancora non se ne sono accorti sono gli uomini, imprudenti e pasticcioni, che per una battuta piccante, un gesto vagamente sessuale, uno sguardo rapinoso, rischiano di giocarsi la vita, la carriera, gli affetti profondi. Complici l’esagerato garantismo, la mondiale diffusione di ogni sex-notizia, la giustizia lumaca. Se fossi un uomo e fossi ricco, potente o noto, le considererei infrequentabili anche solo per un attraversamento pedonale, un viaggio in ascensore, un cavalleresco lasciare il passo. Avrei il terrore del fraintendimento sessuale di ogni mio movimento, anche del più inconsapevole istantaneo tic nervoso o di una mano in tasca. Se le conosci, le eviti. Ma gli uomini le vogliono sempre «conoscere»: credono gratis e poi pagano il prezzo dell’ingenuità. In conclusione, non voglio fare come negli anni ’70 quando, per difendere l’imputato si attaccava la vittima. Oggi, infatti, molte nuove vittime, anche se imputati, sono gli uomini, come ho detto indifendibili: di per sé e perché messi a confronto con una donna solo apparentemente debole. I nuovi carnefici, spesso sotto mentite spoglie giudiziarie, sono alcune donne spregiudicate e avide, che usano come armi contundenti gli scudi giuridici approntati dal legislatore per difenderle. Proprio come una volta gli uomini usavano la «leggerezza» femminile per paludare la propria violenza. Con i malefici scudi delle femmine contemporanee sono stati abbattuti, nel mondo, presidenti, capi di governo, parlamentari, professori universitari e via dicendo, ai quali, dopo lo scandalo – vero o artefatto che fosse – altro non è rimasto da innalzare che una patetica bandiera bianca; simbolo della resa, per l’impotenza della virilità e del potere contro anche la meno desiderabile delle fanciulle.