La costituzione nel 1948 affermava solo formalmente l’uguaglianza e la pari dignità sociale di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso. Ma, fino al 1975 il Codice Civile (del 1942) disciplinava ancora i rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi sul principio della assoluta supremazia dell’uomo: la donna era soggetta alla potestà del marito-capo famiglia, era obbligata a modificare la residenza in forza degli obiettivi di lui, ne condivideva categoricamente il domicilio e, in cambio della totale sottomissione, aveva il diritto al mantenimento e alla protezione. Aveva il dovere della totale fedeltà, in cambio di quella di lui “molto ridotta”: l’adulterio del marito non costituiva infatti reato come quello della moglie che, se sorpresa in fallo, diventava pure madre indegna dei suoi figli. Non solo, della dote diventava proprietario o amministratore il capo famiglia, giacchè l’eventuale autonomia economica avrebbe potuto suggerire, alle mogli, scelte tali da inficiare il potere e il controllo di ogni marito. Gli ultimi 40 anni, e per alcuni interventi legislativi, gli ultimi 20 e persino gli ultimi 10, hanno finalmente segnato la rivoluzione dei ruoli familiari, attuando progressivamente il modello costituzionale con l’equa ripartizione delle responsabilità coniugali e genitoriali all’interno della famiglia ma anche all’esterno. Dunque affermando, era ora, la pari dignità giuridica di uomini e donne. Nello stesso periodo si sono susseguiti molti accomodamenti legislativi specifici, volti ad introdurre in concreto anche la parità costituzionale sancita in tema di lavoro, non solo subordinato. Potremmo a questo punto essere fieri di onorare davvero una carta costituzionale che si è allineata ai paesi più civili, consentendo l’eliminazione di norme discriminatorie in famiglia, nel lavoro e nell’economia generale. Tanto si può fare ancora, per esempio a tutela degli omosessuali, così ingiustamente perseguitati come fossero una razza a parte. Tuttavia c’è un altro grave problema: le giovani generazioni di donne, inconsapevoli delle umiliazioni e delle lotte di cui sono state protagoniste le loro madri e nonne, stanno dissipando la ricchezza delle fondamentali conquiste giuridiche di cui oggi godono, gratuitamente, inconsapevoli della preziosa eredità ricevuta. Hanno il diritto allo studio, al lavoro, al divertimento, al sesso, al divorzio, persino all’adulterio, nella piena ratificata parità col maschio. Però disdegnano, in linea di massima, i corrispettivi doveri. O, comunque sia, li fanno apparire concessioni generose: proponendosi di volta in volta vittime del maschio, della società, della famiglia. E’ vero che ancora non è stato sfondato il “soffitto di vetro”; è vero che la violenza maschile non è stata debellata; è vero che ci sono luoghi di potere misogini. Ma è anche vero che molte, troppe, giovani donne, anche istruite, approfittano delle tutele previste dalla legge e non vogliono maturare la coscienza del dovere e della fatica; usano invece la loro femminilità e strumentalizzano il corpo e la diversità biologica, finendo col non rispettare la pari dignità giuridica. Infangano la potenza della femminilità quelle donne che, a frotte come cavallette, precipitano negli esclusivi territori familiari e di potere per conquistare il raccolto faticosamente seminato e coltivato da altri. C’erano pure una volta: erano furbe, guardinghe e solitarie e le altre le chiamavano puttane. Oggi sono sfacciate e fiere di autodichiararsi pubblicamente escort. Sfruttano la fragile sessualità del maschio, per rovinare famiglie e patrimoni: esiste per loro il diritto ad avere tutto, ma conoscono a fondo esclusivamente il dovere di dare una sola cosa. Sempre e solo quella. Per altro, a mio parere, una cosa ormai così diffusa sul mercato da rendere ridicoli quegli uomini che non se la prendano gratuitamente. Se non altro per pari “dignità”. In nome della legge.