Dal 1975, in mancanza di una precisa e opposta scelta fatta espressamente al momento del matrimonio, il regime legale patrimoniale della famiglia è quello della “comunione dei beni”; vale a dire che i beni acquistati nel corso dell’unione (anche se con molte e numerose eccezioni) da uno o da entrambi i coniugi sono automaticamente di proprietà di entrambi. Questo meccanismo rispondeva, trentatré anni fa, alla duplice esigenza di riconoscere alle donne, allora in maggioranza casalinghe, una dignità, anche economica, pari a quella del marito e di valorizzare l’apporto della moglie alla conduzione della vita familiare. Quella di allora era un’Italia in cui i risparmi delle famiglie erano custoditi nei conti correnti, oppure usati per l’acquisto della casa familiare. Pochi erano quelli che si permettevano di investire, giocando in Borsa e acquistando azioni o titoli. Non esistevano, allora, i tanti prodotti finanziari che oggi hanno invaso il mercato. Era un’Italia in cui le separazioni erano rare e il divorzio era legge da pochi anni. Per quel contesto socio-economico, più semplice di quello attuale, erano state pensate le regole del codice civile sulla comunione dei beni, che hanno svolto un ruolo fondamentale nel nostro Paese; tanto che sino al 2000 la comunione era il regime patrimoniale preferito dalla maggioranza delle coppie di neosposi. Oggi, invece, 6 coppie su 10 scelgono il più facile e snello regime della separazione dei beni. Perché è cambiato lo scenario complessivo. In primo luogo la donna ha acquisito una maggiore indipendenza, professionale, sociale e personale. E ha dunque meno bisogno di tutele rispetto a quanto accadeva nel passato, quando era il marito il solo a gestire il “portafoglio”. E sono proprio le donne, oggi, quelle scarsamente interessate alla comunione dei beni, avendone obiettivamente meno bisogno. La comunione, peraltro, oggi è diventata sempre meno interessante e sempre più fonte di conflitti e contrasti. Le regole che la governano, infatti, sono rimaste le stesse e non hanno assorbito i cambiamenti che si sono succeduti negli ultimi tre decenni. Sono comparse sulla scena nuove forme di investimento, nuove modalità di far fruttare il denaro. Il confine tra attività lavorativa e attività speculativa è diventato sempre più labile. Giudici e avvocati hanno cercato di supplire alle carenze legislative, con il risultato però di aumentare l’incertezza: la discussione su cosa diventi di proprietà comune (e quando) e cosa no è sempre vivace ed animata. Infatti, contrariamente a quello che genericamente si pensa, non tutto quello che marito e moglie, separatamente o congiuntamente, comprano durante il matrimonio diventa di proprietà di entrambi. Sono comuni i beni immobili, a meno che non siano ereditati, donati o acquistati con denaro derivante dalla vendita di beni personali (e ciò sia espressamente menzionato nel rogito di acquisto); sono comuni anche le azioni, così come le obbligazioni e le quote dei fondi di investimento; per le quote di srl occorre verificare se sono una mera forma di investimento oppure se la società è stata creata per un’attività imprenditoriale. Per altre forme di investimento misto (polizze, piani di accumulo, etc.) la discussione continua. Complicato, poi, il discorso dei redditi da lavoro: non sono comuni ma lo diventano solo se esistono ancora quando la comunione si scioglie; e ciò avviene quando marito e moglie lo decidono assieme oppure se interviene una pronuncia del Giudice, in presenza di determinati presupposti. La comunione si scioglie anche successivamente alla separazione personale (consensuale o giudiziale) dei coniugi. In questo caso, il più frequente, marito e moglie devono prima aspettare la sentenza di separazione personale e poi domandare la divisione dei beni comuni. Con due distinti processi uno successivo all’altro. Il ché, è evidente, comporta oltreché una notevole perdita di tempo anche un inutile e dispensioso raddoppio delle spese di legali e periti contabili, che, dovranno dibattere cosa e quanto possa rientrare nella comunione e dunque essere poi diviso Dunque, la scelta della comunione, oggi, complica ancora più le cose. Queste difficoltà dovrebbero indurre a riflettere sulla necessità di riformare l’istituto, mettendo gli sposi di fronte a una scelta chiara: per esempio stabilendo che, con l’opzione della comunione, come nel diritto anglossassone, qualunque bene, acquistato dal matrimonio sino alla domanda di separazione, diventerà di proprietà comune. Una regola semplice per rendere effettiva e più consapevole la comunione che, se non riformata, continuerà ad essere un argomento in più per litigare e discutere in Tribunale. ,Avv. Annamaria Bernardini de Pace ,Avv. Alessandro Simeone