La Francia ha negato il diritto di adottare un bambino a una donna di 45 anni, in quanto omosessuale e convivente con altra donna. Per questo, il Tribunale Europeo dei Diritti Umani di Strasburgo ha condannato lo Stato francese al risarcimento dei danni morali, liquidati in € 10.000,00. oltre che al rimborso delle spese legali per altri € 15.000 circa. A parte la miseria della valutazione del disagio in questione (l’avvocato costa di più della maternità negata), l’Alta Corte Europea ha motivato la propria decisione in base al fatto che la legge francese, a differenza di quella italiana, consente l’adozione anche da parte dei single. Dunque, non possono essere in alcun modo discriminati, nemmeno per le loro scelte di vita e tendenze sessuali. Se il presupposto dell’adozione è l’essere single, non è giusto indagare quale sia l’orientamento sessuale del single stesso, che, peraltro, con tutta probabilità, può non essere eterosessuale. Se l’adozione è negata a un single per il suo stile di vita, che consiste nel convivere con un’altra persona dello stesso sesso, c’è discriminazione. Il principio che emerge, infatti, da questa storica pronuncia è che la Francia sia stata discriminatoria nel negare l’adozione ai gay. E che discriminatorio sia qualsiasi Paese che faccia altrettanto. Tale direttiva, comunque sia, può valere solo per i Paesi nei quali i single possono diventare genitori adottivi. Perciò è destinata ad avere eco limitata in Italia, dove la legge permette solo ai coniugi (sposati da almeno tre anni o che abbiano convissuto continuativamente e stabilmente per il medesimo periodo prima del matrimonio), di presentare domanda per la dichiarazione di idoneità all’adozione. Ai single, però, questa possibilità è riconosciuta anche dalla legge italiana, ma solo in circoscritte ipotesi, del tutto particolari e specificamente indicate. In queste poche ipotesi, anche chi è gay, d’ora in avanti, dovrebbe essere considerato idoneo. Ma il nostro ordinamento, pur contenendo il divieto di discriminare una persona in base al proprio orientamento sessuale, nel diritto minorile – improntato alla tutela del superiore interesse dei bambini – e, in particolare, in tema di adozione, ha sempre espresso e ribadito l’esigenza di assicurare ai minori la presenza di entrambe le figure genitoriali, e di inserirli in famiglie che diano sufficienti garanzie di stabilità. Inserendoli perciò in contesti simili alle famiglie naturali, che possano permettere loro di vivere, crescere ed essere educati da una mamma e un papà. L’obiettivo della nostra legge, tuttavia, non è quello di assecondare l’esigenza di maternità o paternità degli adulti, bensì di soddisfare le necessità affettive di bambini già duramente provati e privati negli affetti più profondi. Dopo questa chiara sentenza della Corte Europea, anche in Italia le carte si dovranno sparigliare. Prima di tutto perché le garanzie di stabilità delle famiglie eterosessuali vanno sempre più evaporando e, pertanto, i Tribunali dovranno rivedere i criteri di idoneità genitoriale. Inoltre, questa rivoluzionaria sentenza imporrà ai giudici di valutare l’opportunità dell’adozione, soprattutto nei casi particolari previsti al n. 3 dell’art. 44 della legge n. 184 del 1983, solo a favore dei bambini, senza violare la vita privata dell’adottante. Infatti, l’orientamento sessuale, in quanto non più indagabile, non sarà più un requisito rilevante ai fini della capacità di adottare. E, soprattutto, il tema dell’adozione da parte di un omosessuale non si porrà più in termini di uguaglianza – che non c’è e non ci può essere -, ma in termini di pari dignità giuridica. Che deve esserci anche tra persone che hanno stili di vita differenti.