Neppure il valore più grande può essere salvato dal sospetto, dal pregiudizio. Il sospetto è il protagonista del film “Io, l’altro” interpretato e coprodotto da Raoul Bova. E’ mio genero e parlare di lui può sembrare nepotismo; forse lo è, ma poco. Perché, in questo ruolo, lui è davvero valido, al di là di ogni ragionevole dubbio. Come abile è l’altro interprete, Giovanni Martorana, e come virtuosa è stata mia figlia Chiara che è intervenuta nel montaggio e nella colonna sonora. Detto questo, sottolineo subito che il film tratta un tema sociale di importanza fondamentale e di estrema attualità: la convivenza con l’altro, il diverso per razza, cultura, religione. La storia di due pescatori, appunto in questo senso diversi, si snoda in una progressiva e sconvolgente gamma di sentimenti ed emozioni, dall’amicizia alla speranza, alla solidarietà, fino alla paura, diffidenza, odio, follia, disperazione. Due amici, Giuseppe e Joseph, l’uno italiano e l’altro arabo, dividono giornate, notti e fatica da anni, svolgendo il loro lavoro tra entusiasmi e delusioni, accompagnati dalla dolcezza dei ricordi condivisi e dai sogni impossibili di un futuro più appagante. Sembra che niente possa turbare questa solidale e complice amicizia, quando invece la radio di bordo li informa di un attentato terroristico e della ricerca dell’indagato. Che sembra proprio essere Joseph. Da qui, da questo preciso momento, la malfidenza assale Giuseppe. Lo sconcerto lo corrompe infido e prepotente, contro ogni realtà possibile e gli avvelena ogni pensiero, ogni gesto. Lo scontro fra i due è doloroso e violento. La gioiosa virilità che li univa esplode e si disperde in frantumi di crudeltà e nubi grevi di odio. Fino ai gesti estremi, allo scontro malvagio delle rispettive culture, alla verità disperata e senza appello. Chiunque di noi, nel suo piccolo, ha vissuto questa corruzione dei sentimenti, in una storia di coppia o di amicizia. Chiunque di noi, dunque, sa come l’anima si lacera, urla la sua indignazione quando le certezze confortanti e buone vengono aggredite dai segnali striscianti del dubbio, finché forze feroci dell’odio, uguali e contrarie a quelle dell’amore, mostrano la verità livida e insopportabile che deve essere eliminata. Col male; per non sentire più il male. Ecco, io credo che la visione di questo film possa essere di grande significato culturale per tutti, proprio nella lettura dei tanti sofferti passaggi emozionali. E’ un modo per riflettere sulla intimità dei nostri pensieri. Sull’adeguatezza delle nostre azioni. Ma non solo. Il periodo storico e politico attuale, così complicato, ci deve portare a estendere il nostro ragionare anche al sociale, ai problemi di convivenza multirazziale, di integrazione, di pregiudizio, di ricerca ossessiva del nemico. Che è forse dentro di noi. Non ha importanza chi tradisce chi; chi uccide chi. Vittima e carnefice sono entrambi preda di un’entità superiore, direi sovrumana, ancestrale. Del male. Dell’odio. Della paura di vivere. Del bisogno incontenibile di avere un avversario da sopprimere, dopo averlo perseguitato. Per sentirci bravi e vincenti. Quando invece “l’altro” è solo differente. E’ non è detto che, tra i due, “io” sia il migliore.