Tragedia Vercelli

L’indignato e lacerante dolore che abbiamo provato nell’apprendere la tragedia della scolaresca devastata dal ribaltamento del pullman, deve farci riflettere. Il nostro sgomento è nulla di fronte alla disperazione dei genitori, all’esperienza incancellabile dei bambini miracolosamente sopravvissuti. All’orrore infinito di quel momento in cui, possiamo immaginarlo, la fresca gioia dei bimbi si è dissolta nella cupezza di un terrore che rimarrà cristallizzato nei loro ricordi. E tutto questo perché? Per irresponsabilità, incompetenza, mancanza di rispetto. Dell’autista in primo luogo, ma anche degli organizzatori della gita, del preside e degli insegnanti della scuola. Chiunque abbia, anche per un attimo, l’impegno (per di più retribuito!) di occuparsi di una vita altrui, deve avere la competenza per poterlo fare. Avere competenza significa garantire agli altri le proprie cognizioni e la capacità specifica. Essere responsabili comporta la consapevolezza di sé e la coscienza del ruolo che si assume. Mostrare rispetto equivale a onorare la fiducia che gli altri hanno riposto in quella persona, in quel ruolo, in quella funzione. Ora, se l’istituto scolastico organizza una gita per gli alunni, ha il sacrosanto dovere di scegliere mezzi, autisti e accompagnatori di altissima fiducia e garanzia. Ma, proprio per la responsabilità di custodia che gli organi scolastici hanno verso gli allievi, c’è anche il sacrosanto diritto di verificare e di censurare il servizio scelto e poi messo a disposizione. Persino di annullare l’eventuale contratto, se non rispondente alle serie aspettative. Perché nessuno degli accompagnatori si è rifiutato di salire con tanti bambini su di un pullman guidato da un solo autista? E chi aveva verificato la “storia” di questo autista? L’ha dichiarato lui stesso di avere fumato una “canna” la sera prima. Sono quasi certa che, se questa notizia si fosse saputa prima della partenza, la maggior parte dei “responsabili” l’avrebbe trascurata con quel solito, insopportabile, tono di superficiale accondiscendenza che ormai qualifica gli ascoltatori di queste miserrime confessioni. Sì, perché è ormai considerato politicamente corretto accettare che chiunque faccia qualsiasi cosa, perché c’è la libertà di farlo. Ma non è vero, non può essere così. Bisogna sapersi indignare e ribellare. L’autista sul luogo di lavoro deve arrivare senza residui di cannabis, e così il medico, l’avvocato, l’insegnante, il giudice, il poliziotto, il cuoco e chiunque abbia nelle sue mani in qualsiasi modo la vita degli altri. Perché, se si drogano, questi non possono essere né competenti, né responsabili, né rispettosi di sé e degli altri. E dunque mettono in atto, in ogni loro gesto, un tentativo di reato. E per drogato intendo non solo chi, come suol dirsi, “si fa” di canne o di cocaina, ma anche chi “si fa” di alcolici, di farmaci invasivi e di qualsiasi altra sostanza che attenui l’attenzione e la lucidità. Ogni datore di lavoro ha la responsabilità di controllare l’adeguatezza al ruolo dei propri dipendenti. Il “capo” degli autisti deve avere il diritto-dovere di accertarsi che, prima di mettersi alla guida, il suo dipendente non sia alticcio o assonnato, dopo averne evidentemente stabilita la perizia fin dal momento dell’assunzione. Anche l’onorevole curriculum di un medico, però, non è sufficiente a garantire l’esito di un’operazione chirurgica, se questa è preceduta da una nottata invereconda. E’, dunque, evidente che l’autoresponsabilizzazione è la prima garanzia che vorremmo poter pretendere da chiunque si occupi delle nostre vite. Ma (ne vogliamo parlare con tutta sincerità?) ciascuno di noi, su quante persone può veramente contare con cieca fiducia? Non ci stiamo forse accorgendo progressivamente che “responsabilità”, “competenza”, “fiducia”, “rispetto”, sono termini quasi desueti e surclassati da altri quali “potere”, “diritto”, “interesse”, “piacere”, “mio”, “io”? L’inciviltà di un popolo si misura, secondo me, proprio dal rarefarsi delle relazioni, dal progressivo disconoscere l’importanza degli altri, dall’incapacità di capire che ogni nostro gesto incide nel sociale a catena, come è d’esempio l’errore dell’operaio che ha invertito a Taranto i tubi d’emissione dell’ossigeno e dell’azoto. Il piacere assurdo di una canna può trasformarsi in una tragedia assurda. In sostanza, il potere, a qualsiasi livello, senza la competenza e la responsabilità di chi lo esercita, può ferire a morte. E’ veramente grottesco che, in questo paese superficiale, si continuino a fare leggi, impartire ordini, elaborare sontuosi necrologi e poi si trascurino, così bovinamente, non solo la lotta alla droga, ma quella, ben più necessaria, all’incapacità e all’irresponsabilità di tutti coloro che svolgono anche un ruolo apparentemente insignificante. Se è vero che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, proprio per questo il lavoro, qualunque esso sia, deve essere onorato, con competenza e responsabilità. Ogni giorno e nel rispetto anche della vita altrui.