Ecco la questione: per tutelare il sentimento familiare o affettivo, quando qualcuno è chiamato a testimoniare può astenersi dal farlo. Una volta c’era addirittura il divieto di essere teste contro un congiunto. Oggi il legislatore non ha stabilito un criterio assoluto, ma ha concesso, appunto, la facoltà di astensione dal deporre, quando il farlo mette l’interessato in conflitto tra il dovere di dire la verità e il desiderio di non danneggiare un prossimo congiunto. È ovvio che, se poi il testimone decide di non astenersi, e quindi di deporre in tribunale, la verità va detta. Affetti o non affetti. Infatti escludere la falsa testimonianza, e quindi ritenere non punibile chi non si è astenuto, equivarrebbe a legittimare la figura del testimone con licenza di mentire. Il che sarebbe paradossale nel nostro sistema giuridico che prevede sia il dovere di testimoniare dicendo la verità, sia il reato di falsa testimonianza, sia il diritto di non testimoniare quando si teme un cortocircuito tra affetti, lealtà e senso civico. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno annullato una sentenza, rinviandola alla Corte d’Appello di Roma per un nuovo giudizio, perché i magistrati, sbagliando, avevano stabilito che non è punibile per falsa testimonianza chi mente per salvare dal disonore un parente, e ciò fa malgrado abbia avuto l’opportunità offertagli dalla legge di rinunciare a testimoniare. È ineccepibile il ragionamento logico e giuridico della Corte che rimette in posizione di equilibrio alcuni articoli del codice penale disinvoltamente interpretati dai magistrati di primo grado. Tuttavia, nel percorso argomentativo, i Supremi Giudici sono inciampati in un tronco messo di traverso – peraltro quanto mai visibile in questo primo scorcio di terzo millennio – e che li ha fatti ruzzolare indietro di oltre 50 anni. Nello spiegare la differenza tra le tutele accordate nel primo e secondo comma dell’articolo 384 c.p. precisano che vi sono casi in cui il dichiarante non ha la facoltà di astenersi; tuttavia egli può dover mentire per non auto accusarsi o per non mettere in grave imbarazzo un congiunto; in tal caso opera la non punibilità della falsa dichiarazione. Proprio a questo punto i severi magistrati affermano: “… anche tutte le altre dichiarazioni dalle quali potrebbero emergere fatti disonorevoli (un rapporto incestuoso; un rapporto omosessuale) per il testimone ( richiesto ad esempio di indicare le ragioni per le quali era presente in un certo posto a una certa ora).” Tanto per cominciare il rapporto incestuoso è penalmente perseguibile e il rapporto omosessuale invece no. Dunque il paragone, per gli alti magistrati penali, è davvero più che un ruzzolone: così pensando, cancellano decine di anni di legge e di giurisprudenza, ma soprattutto se ne infischiano della pari dignità giuridica delle persone, dei diritti civili, della non discriminazione, della società libera e avanzata in cui noi viviamo. Non sanno forse che gli omosessuali, anzi gli omosentimentali, sono fieri di esserlo? Lo dichiarano apertamente, non considerano per nulla un disonore partecipare al gay pride. Invocano a gran voce pax, dico e matrimoni. Quale disonore? Fanno feste pubbliche, si fanno fotografare insieme, si vivono in famiglia. Sono finalmente liberi di amare chi vogliono e di non sentirsi ghettizzati dal cupo giudizio altrui. Gli incestuosi fanno forse altrettanto? E’ giusto assimilare queste due categorie così distanti nel concetto complessivo di disonore, menzogna e “grave nocumento a sé e familiari”? Secondo me sono molto più disonorevoli le relazioni extraconiugali degli eterossessuali. Che, infatti, mentono disperatamente, anche in tribunale, per nasconderle. Comunque sia, prima di concedere troppe indulgenze ai bugiardi interessati, sarebbe bene che alcuni giudici scendessero tra noi: è loro il compito di interpretare correttamente le leggi adeguandole alla sensibilità, o all’insensibilità, sociale. Ed è anche loro il dovere di testimoniare, correttamente, dell’onore e del disonore. In genere e in particolare.