Lo stato insorge

La violenza, qualsiasi forma di violenza, è il più grave insulto alla libertà dell’individuo. E la libertà – libertà di pensare, di essere, di volere, di scegliere – è il bene assoluto cui tutti aspiriamo e per il quale ogni giorno della nostra vita combattiamo piccole e grandi battaglie. Dunque, la violenza ripugna a chiunque. O dovrebbe. Certamente non ripugna ai violenti e violentatori, ma anche sembra lasciare indifferenti coloro che per elezione hanno il compito di tutelare la sicurezza e la libertà delle persone. E’ insopportabile e orrendo che ogni giorno la notizia di apertura dei media sia sempre quella di uno stupro ai danni di una ragazza, di una giovane o matura donna, persino di un’anziana. E’ vergognoso che le altre notizie, a seguire, siano sempre le stesse: omicidi, aggressioni, rapine, borseggi. Violenze sempre, quindi, sia sulle persone sia sulle cose. Nelle strade, nei garages, negli ascensori delle nostre case, nei giardinetti del quartiere, nel nostro stesso appartamento. E lo Stato cosa fa? Sta a guardare lo scempio e lo strazio mentre, già incapace di governare e punire i violenti di casa nostra, spalanca porte e portoni (anche del carcere, in uscita) a clandestini pronti a delinquere. A uomini disperati, frustrati, e falliti cui non resta altro che ubriacarsi e ammazzare bambini con auto rubate, oppure rubare, sempre per ubriacarsi, e poi stuprare a ogni ora del giorno e della notte. Non sono razzista, ma credo fermamente che non si possa offrire solidarietà in termini di ipocriti moralismi. Così facendo si crea e si moltiplica la confusione sociale, sprecando occasioni di reale tutela e perdendo di vista gli obblighi di sicurezza sociale. Il profilo dei fatti, privo di pregiudizio, dimostra che negli ultimi quattro anni il 60% degli stupri e delle violenze è opera di stranieri. Ma lo Stato, e chi lo rappresenta sia nella maggioranza sia nell’opposizione, sa che cosa vuol dire per una donna vivere con l’incubo dello stupro? Le donne violate raccontano la vergogna, la rabbia, il dolore che le affligge per il resto della vita. Ci parlano della loro anima che sentono sporcata e che straziano per strapparle i brandelli brucianti del ricordo. Del tormento nel fare anche l’amore e del ribrezzo trattenuto nel toccare il corpo di un uomo. Della disperante angoscia nel mettere al mondo una bimba. E questo lo raccontano le donne più forti, che dopo la tragedia hanno cercato di tornare a vivere. Ma anche le donne fortunate, quelle che non hanno ancora incontrato l’orco nostrano o forestiero, non vivono con serenità. Sono intanto preda della paura per sé, le figlie, le madri, le sorelle. La conquistata autonomia sociale e giuridica è fortemente ipotecata dal terrore di imbattersi nella violenza del maschio bruto, dentro e fuori casa. E non solo la violenza, ma anche la paura della violenza, atterrisce e paralizza, frena i pensieri e interrompe i progetti. Induce all’immobilità come forma di autotutela. Incrina la speranza e ghiaccia la generosità. Chi vive con l’incubo della violenza, non vive. Vegeta nel timore e nel rancore. Non è questo lo Stato che noi tutti vorremmo, cioè un mondo di violenti in libera uscita e di donne morte o vegetanti. Ma questi uomini politici che si indignano solo per la violenza polemica dei loro avversari, e queste donne politiche che passano le ore nelle salette trucco della TV accudite dalle scorte, pagate da noi, sanno forse di che cosa stiamo parlando? Oppure per loro la questione femminile si arresta, pateticamente, alle quote rosa? ANNAMARIA BERNARDINI de PACE