L’Economist entusiasta annuncia che negli USA le donne, nei prossimi mesi, diventeranno maggioranza della forza lavoro e conclude giustamente “è la più grande rivoluzione sociale di tutti i tempi”. Qualcuno ha commentato che la ragione sta nel trionfo del cervello, perché i muscoli servono sempre meno nel mondo del lavoro. Nei fatti anche Svezia, Danimarca, Francia, Germania e Inghilterra raggiungeranno a breve il medesimo obiettivo. L’Italia, da parte sua, non si può lamentare quanto a numero di laureate e professioniste, quasi pari ai colleghi maschi. Fatto sta che i premi 2009 del Presidente della Repubblica Italiana, proprio ieri, sono stati assegnati tutti e tre a donne. Giorgio Napolitano ha sottolineato “è un segno dei tempi”, riconoscendo al femminile il prestigio delle Accademie dei Lincei, di San Luca e Santa Cecilia. Che le donne non siano così bisognose di protezionismo politico e sociale, lo si ricava anche dalla quantità di Sindaci e Governatori donna che possiamo vantare (addirittura nel Lazio la corsa è tra la Bonino e la Polverini), di ministri e sottosegretari etc…Ragionando sui numeri, è chiaro che siamo nel cuore di un processo in divenire, ma certamente è antistorico e pedante ammannire ancora, da parte di parecchie donne, la manfrina dolciastra del chiedere aiuto a tutti, lamentando una discriminazione che non esiste più. E’ tale, invece, l’interesse generale sulla figura femminile, come portatrice di storia, cambiamenti, capacità e coraggio, che i primi tre libri nella classifica Amazon sono biografie di donne. E’ giusto che sia così. Le donne sono fuggite dall’obbedienza; hanno dovuto disfare il tessuto imprigionante che le rivestiva e che era stato intrecciato per secoli dalle loro madri; hanno cercato di attraversare la strada dell’emancipazione senza spargimenti di sangue; hanno voluto sottrarsi alla legge del padre per conquistare almeno la minima giustizia sociale. Nel terzo mondo e in Islam, per esempio, ancora la donna non ha la libertà di prendere né una decisione né un tram, quando lavora è sottopagata e serve l’uomo in tutte le necessità. Nel mondo “civile” del 1900, Freud aveva elaborato il concetto del complesso di castrazione: per forza, l’uomo aveva qualsiasi diritto la donna non avesse; la quale invece era considerata esclusivamente oggetto a comando del desiderio e della volontà dell’uomo, ed essenzialmente un essere inutile se sterile. Ma in ogni caso debole e inaffidabile, perché soggetta a svenimenti: anche un uomo lo sarebbe stato, se bloccato in quei corsetti strizzatissimi a esclusivo uso seduttivo. Oggi nessuna donna ha motivo di invidiare un pene che non ha mai avuto, non ha e non avrà mai. Ci sono ancora però retroguardie di donne succube (dal latino sub-cubare:giacere sotto, da cui succuba = concubina) della cultura maschile, millenaria e antistorica, e parecchi uomini che non hanno capito la differenza tra uguaglianza e parità. Le conquiste giuridiche hanno consegnato a tutti la stessa linea di partenza. E’ tuttavia disonorevole ritenere, a questo punto e solo per questo, che siamo tutti uguali. Non perché l’uomo non sia di per sé, in generale, un essere interessante e di valore, ma perché la donna ha una sua identità, sempre in generale interessante e di valore, e per questo non deve pensare di omologarsi a un modo di essere e di fare che non le appartiene, né geneticamente né psicologicamente. Come dice la filosofa Luisa Muraro “noi donne abbiamo il privilegio di essere nate dello stesso sesso di nostra madre”. Dunque, dopo aver conquistato le basi della giustizia sociale che ci consentono di avere le stesse potenzialità affermative di un uomo, è questa legge matriarcale che dovremmo seguire. Restare appese alla cultura, o meglio alla legge, patriarcale vuol dire mettersi nelle mani degli uomini e perdere le proprie peculiari competenze. Significa assumere atteggiamenti e linguaggi guerreschi, per cui si è definite, con immagine raccapricciante e trans-gressiva, donne con le palle; ma comunica anche la voglia di cercare di essere la donna di qualcuno potente o fidarsi solo degli uomini. Dimostra, in sostanza, difetto di autostima, mancanza di sicurezza, inconsapevolezza della propria identità. Sono queste donne rivendicative, che non sanno esprimere il sé femminile. La forza della propria diversa psiche e la conoscenza della differenza. Differenza che, peraltro, è portatrice di un grande e indispensabile valore biologico, mentale e storico. Le donne che sono al potere, lo gestiscono in modo diverso se lo hanno raggiunto per meriti e capacità personali (come la Merkel o la Thatcher) o perché sono le donne di qualcuno (come la Clinton). Sono quelle, e non questa, le donne capaci di imprimere alla vita, al lavoro, all’eventuale potere, modalità di espressione nuove e rivoluzionarie, perché fino a ieri soggette a regole padronali soffocanti e insuperabili. Sono donne che hanno saputo emanciparsi senza perdere la propria differenziazione. Appartengono certamente a questa categoria le tre rappresentanti delle accademie che hanno ricevuto dal Presidente l’apprezzamento della competenza e dell’abilità mostrate nel lavoro quotidiano. Così come devono esservi incluse tutte le donne fiere di essere tali senza dover imitare nessuno; consapevoli di avere potenzialità di affermarsi, identiche a quelle degli uomini; e, soprattutto, renitenti a qualsiasi forma di autocompatimento o di strumentalizzazione dell’uomo. E’ vero però che non tutto è così semplice: queste donne, che hanno la dignità dell’autonomia e che difendono la femminilità costitutiva della loro identità, sono oggetto di invidia e beffe da parte di molti uomini, ma anche di trappole e denigrazioni da parte delle donne. Spesso la loro vita familiare è difficilissima, perché non hanno la solidarietà del partner e l’opportunità di essere supportate dai servizi dello Stato (asili, deduzioni fiscali per le colf etc…) Sovente, sono anche sole, perché non accettano la coppia “purchessia”, come simbolo sociale, ma aspettano un uomo che onori la differenza nel rispetto della pari dignità giuridica. Sempre che esista e ne abbia il coraggio. In nome della legge.