Mi sembra una banalizzazione del problema, che è invece un problema molto complicato. Il credere che le donne lavoratrici provochino meno divorzi delle casalinghe, potrebbe costituire persino e finalmente il sereno punto di svolta dell’affermazione dell’autonomia femminile. Potrebbe decretare la parola fine all’eterna angoscia della donna, psicologicamente spaccata tra voglia di carriera e voglia di casa. Andrebbero in meritato esilio le lamentele dei mariti sulla casa trascurata, le cene non pronte, i compiti dei bambini alle nove di sera. Tutte le donne vorrebbero lavorare, se non altro per conservarsi l’amore e il marito per tutta la vita. Sogno irrealizzabile per la maggior parte. Tanto per cominciare, perché deve dipendere dalla donna – se lavora o no – la durata del matrimonio? Ci sono donne che lavorano, ma tradiscono il marito, dimenticano i figli e provocano la rottura familiare. Altre che non lavorano fuori casa, ma sono straordinarie mogli e madri, assumono il ruolo di amministratrici, cuoche, infermiere e maestre all’interno della loro famiglia che sanno tenere unita. Nell’un caso e nell’altro conta anche la qualità del marito: se pigro, collaborativo, geloso o indifferente, dovrà pur avere una reazione in linea o contro lo stile comportamentale della moglie. Il matrimonio è infatti basato sul consenso dei partner, che deve permanere in entrambi perché la vita coniugale possa proseguire in armonia e serenità. E allora, qual è il senso di questa ricerca? Se entrambi i coniugi lavorano, ci sono meno possibilità di incontro in casa e, dunque, meno occasioni di scontro; oppure non c’è tempo di fare bilanci e di misurare la felicità di coppia; oppure, ancora, ci si perde di vista? Non sappiamo se è stata calcolata la variabile della moglie che lavora e il marito invece no. Potrebbe essere interessante capire quanti matrimoni durano con questa modalità e perché. E bisognerebbe anche sapere se è stata approfondita la qualità dei mariti delle mogli che non lavorano e il perché del loro divorzio. Forse erano mariti padri-padroni, rivelatisi nel tempo magari violenti, oppure dediti a spigolare femmine invece che al desco familiare. Non possiamo seriamente credere che un uomo così, una se lo tenga solo perché occupata a lavorare. E chi può dire che una donna impegnata fuori casa non si dedichi anche a voluttuosi pomeriggi erotici, per meglio metabolizzare il peso della vita familiare al suo ritorno? Non credo che un marito, una volta scopertala, anche non in flagrante, abbia la pazienza e la generosità di tenere fermo il matrimonio. Dunque il lavorare o lo stare a casa non possono costituire un pilastro di sicurezza del progetto matrimoniale. Che è invece basato su troppe variabili, personali, ambientali e anche casuali, perché si possano dare seri numeri statistici e leggi comportamentali. Vedo di tutto nella mia attività professionale e sono davvero certa che non sia il lavoro a incidere, nel bene e nel male, sulla necessità di separarsi. Il matrimonio dura quanto dura il motivo per cui ci si è sposati. Se all’origine c’è un autentico sentimento, è la sua evoluzione o il deterioramento che ne determina il destino, indipendentemente dall’attività lavorativa della donna: ci sono uomini che apprezzano progressivamente la carriera, il denaro, la stima acquisiti nel tempo dalla compagna, e altri che ne sono infastiditi, la invidiano, la colpevolizzano. Ci sono mariti che trattano come regine le mogli nullafacenti e altri ancora che le disprezzano e le mortificano, perfino se si distruggono di lavoro casalingo. Così è pure se il matrimonio ha all’origine un calcolo di interesse: la vita unita permane fino a che quell’interesse è condiviso da entrambi e non appare all’orizzonte di uno dei due qualcosa o qualcuno di più gratificante. Il mondo familiare e la vita di coppia sono cambiati significativamente negli ultimi cinquant’anni: la famiglia non è più un’istituzione sociale/contenitore il cui valore superi quello dei singoli individui. Anzi, i diritti personali di ciascuno sono diventati, purtroppo, gerarchicamente più importanti dei doveri e delle responsabilità verso gli altri componenti. Il che porta ogni famiglia a ricamare a modo proprio il tessuto affettivo che la unisce. E anche a stracciarlo, perfino all’improvviso, per ragioni personalissime e non catalogabili: sono tante, troppe, quante, cioè, ne esistono nell’infinito modo di esprimersi dell’animo umano.