Ancora un padre separato, che ha ucciso la sua piccola figlia. Quasi ogni giorno in Italia c’è una strage familiare. Nel 75% dei casi le vittime sono donne, nel 12% i figli, uomini gli altri. I presupposti, dichiarati o in seguito accertati, sono i conflitti. Culturali, generazionali, ereditari, coniugali. Il problema è gravissimo, ma lo si affronta solo per inorridire al momento in cui scorre il sangue. Soprattutto quando è di un bambino. I tromboni e i codini, ma soprattutto gli ipocriti, per l’ennesima volta diranno che le separazioni sono nefaste, che i bambini ci vanno sempre di mezzo, che la famiglia era una certezza quando non c’era il divorzio. Chiunque ciò dirà, o solo penserà, potrebbe invece riflettere più a lungo e analizzare queste continue tragedie da un’altra prospettiva. Sono i matrimoni, infatti, e le cosiddette unioni sentimentali e le improvvisate convivenze, che meriterebbero di essere analizzate e giudicate, per come si creano e si trasformano in brevissimi spazi di tempo. Negli ultimi venti anni, le relazioni tra uomini e donne sono profondamente cambiate. Cercate e vissute all’insegna della libertà individuale. Il politicamente corretto – cancro comportamentale che ha intaccato il pensiero e la coscienza di molti – vieta che si indaghi in qualsiasi modo sulla storia personale e familiare di chi si incontra. Il politicamente scorretto obbliga, invece, quasi tutti a conoscere sessualmente chiunque solleciti i sensi; invece di approfondire – in via preventiva – il pensiero, i meriti, i valori praticati da chi si incontra. Per di più oggi, oramai, chiunque decida di convolare a nozze, o a coabitazioni, non solo non chiede, ma rifiuta sdegnato qualsiasi consiglio della propria famiglia o degli amici. Anzi spesso si assumono decisioni in contrasto, così da affermare la propria libertà. L’amore, dai più, non è considerato come espressione di solidi, profondi, verificati sentimenti da raccogliere insieme per costruire interessanti progetti di vita. Si confondono, infatti, le emozioni con i sentimenti, il momentaneo desiderio erotico con la definitiva scelta vitale. Dopodiché ci si separa. Perché, qualche tempo dopo, non si riesce a sopportarsi, giustamente, considerata la superficialità della scelta. Oppure perché si è irresponsabili; o, ancora, perché dietro l’angolo c’è sempre qualcuno più interessante di chi si vede ogni mattina. Dunque, la separazione è, solo e semplicemente, un rimedio a una situazione negativa che già c’era: o l’amore non c’era mai stato, oppure è stato sperperato dall’incapacità di uno o di entrambi di coltivarlo. Se la separazione è un rimedio, il danno è rappresentato dall’unione sbagliata o rovinatasi nel tempo. Purtroppo la generazione dei trenta/quarantenni, come sovente si dimostra incapace di costruire una relazione duratura, altrettanto spesso si rivela incapace di separarsi. Nonostante la separazione in sé sia ormai considerata un evento “normale”, un fatto quasi fisiologico nella vita di coppia. Ci sono relazioni affettive patologiche, però, che non riescono a interrompersi neppure con la separazione. I legami persistono con i dispetti, le vendette, gli inadempimenti, il conflitto giudiziario. I figli, che diventano corpi contundenti coi quali colpirsi reciprocamente a ogni incontro. I figli che diventano documenti umani della violenza. Fisica, psicologica, affettiva. La violenza che cresce dentro alla famiglia. Una famiglia che non sa più svolgere il suo compito, di cura, educazione, contenimento, maturazione. Affettiva e sociale. Dietro le stragi ci sono sì, a volte, malattie psichiche non curate (e già questa è una colpa del nucleo familiare inefficiente), ma la maggior parte dei casi offre scenari apparentemente normali prima della tragedia. Tuttavia questi padri e madri autori del delitto più atroce, nel tempo, prima di essere chiamati figlicidi, potevano forse essere riconosciuti come litigiosi, anaffettivi, freddi, perfidi, spietati, insensibili. Tuttavia hanno trovato qualcuno che li ha “amati”, che si è fidato di generare un figlio con loro. Ma questo qualcuno si era mai interessato al racconto della loro vita? E la famiglia d’origine dell’omicida, nel non educare i figli alla relazione affettiva, nel non curarli se necessario, aveva mai pensato che – abiurando al proprio fondamentale ruolo – sarebbe stata complice dell’omicidio futuro di un nipotino? Fare una famiglia è una scelta seria. Non è un gioco, non è un diritto, non è una garanzia. I genitori devono avere spirito di servizio ed educare i figli ad affrontare la vita. Difficoltà, frustrazioni e malattie comprese. Non onorare il ruolo formativo genitoriale, vuol dire crescere individui intrisi di rabbia e infelicità. Vulnerabili. Vittimisti. Intolleranti. Incapaci. Sia di costruire una famiglia, sia di gestire una separazione. Fino alla strage. L’impulso ad ammazzare i propri “cari”, nasce da disturbi dell’affettività. I papà e le mamme che uccidono i loro figli, per vendetta o per frustrazione, non sempre sono folli. Sempre, però, sono figli di qualcuno che se ne è disinteressato o li ha cresciuti abituandoli alla visione egocentrica e malata del mondo; nella quale gli altri servono a procurare solo piacere e non hanno nessun diritto. Neppure quello di vivere. Oggi, di fronte a questa ennesima sanguinosissima morte di una bimba, assumiamoci le nostre responsabilità. Per spirito di solidarietà. Non è il caso, quindi, di demonizzare genericamente le separazioni, non è sufficiente mostrare sdegno e sgomento a ogni singolo episodio di assurda violenza. Dobbiamo capire, invece, perché ci sono tanti genitori disturbati; perché nessuno è in grado di fermarli prima; da quali famiglie provengono; dove alligna il seme della violenza; quali sono gli strumenti che la società ha a disposizione per informare le famiglie ed educarle a educare. Chi vuole formare una famiglia deve sapere che ambisce a una prestigiosa responsabilità. Dunque, deve prepararsi; sapere scegliere; modificare le proprie personali aspettative; rispettare il proprio ruolo e i diritti degli altri; faticare e soffrire. Solo così potrà interrompersi, un giorno, la catena generazionale della violenza.