Tra i pochi giudici che stimo, per competenza e devozione al lavoro, c’è la Dott. Annamaria Gatto. Sì, proprio quel magistrato che, con un’ordinanza irrituale e carica di sfida, ha battezzato come “vittime” le “testimoni” del caso Ruby. Sulla base del principio: “Ti dichiaro offesa. In nome della legge”. Pur con tutta l’ammirazione che ho per questo Giudice, non riesco a capire il senso giuridico della sua decisione. E mi riesce ancor più arduo ipotizzarne uno sfondo politico, proprio perché da anni ho apprezzato nella gestione dei suoi processi una lodevole equidistanza dagli schieramenti di genere, razziali e, appunto, politici. Dunque, queste ragazze, soprannominate “olgettine”, perché sembra che godessero dell’uso pressoché gratuito di appartamenti situati in via Olgettina, sono state coinvolte – finora come testimoni – nel processo contro Fede e Mora, accusati di sfruttamento della prostituzione. Due di loro si erano già costituite parti civili, giacché autodefinitesi “parti offese”, e il giudice ha concesso alle altre 30, indicate dal P.M. come testimoni, i termini processuali per fare altrettanto. Il paradosso giuridico è che non spetta al Giudice identificare le parti offese, cioè le vittime del reato. Non ha rilevato questa connotazione il P.M. durante le indagini; non l’ha fatto neppure il GUP all’udienza preliminare, che costituisce una sorta di filtro tra l’attività inquisitoria dell’accusa e l’attività dibattimentale del processo, destinato poi a concludersi con la decisione. Il decreto di convocazione delle parti lese, peraltro, è stato notificato solo a due ragazze, non a tutte quelle indicate come testimoni nell’apposita lista. Quale potere può avere, mi chiedo, il Giudice del processo per stabilire a priori che i testimoni si trasformino in vittime, senza avere prima accertato i fatti con un minimo di dibattimento e nel rispetto del contraddittorio tra le parti (accusa e difesa)? La spiegazione della Dott. Gatto e delle due colleghe che costituiscono il collegio giudicante, sembra essere nella circostanza che la giurisprudenza considera il reato di sfruttamento della prostituzione non più solo a tutela della morale pubblica, ma soprattutto a protezione della dignità e della libertà della persona. Secondo principi, peraltro, che costituiscono pilastri portanti di numerose convenzioni internazionali. Tuttavia questi criteri sono più semplicemente applicabili alle drammatiche situazioni di tratta delle schiave, agli orrendi casi di povere e malcapitate donne, in pratica, sequestrate da loschi sfruttatori, ricattate e malmenate, utilizzate come oggetti di lucro. Nel caso che ci riguarda, invece, tutte le ragazze, anche quelle che si sono già definite “offese”, hanno sempre negato di fare parte di qualsiasi giro di prostituzione. Tra l’altro, per ora, il reato è solo ipotizzato dal PM, che accusa, e non è stato accertato dall’istruttoria che deve ancora farsi. Chi si costituisce parte civile, deve essere persona offesa dal reato; se il reato è sfruttamento della prostituzione, ci deve essere almeno una prostituta; se le prostitute non ci sono, o non si dichiarano tali, come è possibile il reato? Quale dovrebbe essere il danno diretto subito dalle parti offese? Anche coloro che si sono già costituite parti civili, e che raccontano di essere fuggite da una festa, in quanto scandalizzate, quale danno possono avere mai percepito? Se a una cena mi offrono il formaggio e io non lo voglio mangiare, quale danno ho sopportato? La verità è che queste “olgettine”, qualsiasi cosa abbiano o no fatto, hanno sempre agito con libera autodeterminazione, tanto da poter anche lasciare la festa quali insalutate ospiti. Se hanno scelto (invece di fare le impiegate, le maestre o le sarte) di cavalcare comodi percorsi privi di merito e ricchi – secondo loro – di opportunità variegate, è un problema loro e della loro dignità. Gestibile a piacere, come il corpo. Tra i tanti diritti che abbiamo c’è anche quello di essere puttana. Che non è sinonimo di prostituta. Se poi i PM e tutti i media hanno fatto confusione, questa sì forse gravida di ragioni politiche, il danno che hanno ricevuto queste ragazze ha un’origine ben precisa. I guasti che hanno sopportato alla libertà e alla dignità, hanno dunque causa efficiente nelle personali scelte di vita, ma soprattutto nella maliziosa trasformazione, accusatoria e mediatica, delle feste di Arcore in postriboli. Nessuna delle ragazze, tuttavia, ha mai denunciato di essere stata costretta, tantomeno con condotte vessatorie dei trimalcioni, a partecipare a queste feste. Anzi. C’erano liste di attesa e aspettative rutilanti, proprio da parte delle cosiddette – ora – parti offese. Mi sembra, dunque, eticamente molto invasiva la nuova interpretazione giudiziaria del concetto di vittima: non riesco a intravedere, infatti, nessun diritto leso a queste ragazze. Se non quello di essere, legittimamente, e di fare, spensieratamente, le puttane.