Le donne costituiscono un bersaglio per gli uomini più efferati: mariti, fidanzati, ex, vicini di casa

Di Annamaria Bernardini de Pace

Una bravissima ragazza a detta di tutti, lavoratrice e giocatrice di volley, fidanzata con un bravo ragazzo, è stata trovata in casa morta, con la testa spaccata. Sembra che l’assassino, che pare abbia confessato, sia un vicino di casa. Dunque, l’ipotesi del movente è o nel tentativo di stupro o in una lite tra condomini. Non cambia l’orrore che, per l’ennesima volta, stiamo provando per una donna uccisa. Ormai le donne costituiscono un bersaglio per gli uomini più efferati: mariti, fidanzati, ex, vicini di casa.

C’è da domandarsi da chi siamo circondati. C’è da domandarsi se dobbiamo guardare qualsiasi uomo, il passante, il vigile, il panettiere, ma anche l’amante o il corteggiatore, come il nostro potenziale assassino. C’è da imparare, però, che cosa possiamo mai fare noi donne di intelligente o, quantomeno, di salvifico, per evitare di morire al ritmo di, più o meno, dieci di noi al mese. Più o meno. Sempre troppe. Ormai, credo, abbiamo detto un milione di volte (forse) che cosa dobbiamo fare tutte per sottrarci alla furia omicida di chi noi abbiamo veramente amato, quando lui, invece, ha finto di amarci. Per poi uccidere per presunta gelosia o falsa disperazione: il femminicida è solo un criminale; violento e crudele, senza capacità di pentimento e, tantomeno, di dolore per se stesso. Nell’assenza assoluta di sentimenti.

Tutte noi donne dovremmo imparare a difenderci da sole dall’uomo che vorremmo: quando lo scegliamo, quando inconsapevoli lo coccoliamo, quando lo perdoniamo, per gesti, già in sé, espressioni di una violenza che poi esploderà nel femminicidio. Non possiamo avere un poliziotto come angelo custode, in situazioni che proseguono nel rischio solo per volontà nostra. Dobbiamo imparare a capire, a denunciare, a scappare e a rinunciare alle illusioni quando la realtà le contraddice. 

Ma quando invece il massacratore omicida non è il tuo uomo, bensì un uomo qualsiasi, come dicevamo, un passante, un vicino di casa, uno sconosciuto che ci sorprende, che cosa possiamo mai fare? Niente. È chiaro che il delinquente sfrutta la propria maggiore forza fisica per disintegrare la vita di una donna notoriamente più fragile e, dunque, perdente in qualsiasi confronto fisico. Si dice “dobbiamo munirci di spray al peperoncino”, “dobbiamo imparare il karate o lo judo”, “dovremmo essere sempre armate di coltello, di bastone o, addirittura, di pistola”.

Ma ci rendiamo conto di come queste situazioni che precedono il femminicidio siano, comunque sia, e sempre, all’improvviso? Senza possibilità di elaborare una qualsiasi forma di difesa e meno ancora una strategia. Siamo in ogni caso perdenti. E destinate alla morte se un uomo, lucidamente (io non credo al raptus confuso grazie al quale tanti colpevoli, muniti di bravissimi avvocati, sono puniti con più indulgenza), ha deciso di appropriarsi della vita di una donna fino a farla morire. Dunque, il problema è la nostra debolezza di fronte alla furia omicida, alla forza bruta, alla violenza incontenibile, che qualsiasi uomo, anche il più insospettabile, può manifestare. 

O dobbiamo, forse, rinunciare a quella libertà che abbiamo conquistato con tante battaglie giuridiche e sociali e, quindi, non girare più da sole per le strade, non ricevere nessun uomo a casa (neanche l’idraulico o l’antennista), non rincasare da sole dopo il tramonto e dimenticarci un posto singolo al cinema, in chiesa, al ristorante, al bar e tanto più nel metrò di sera? E perché questo? Perché l’uomo (ovviamente non tutti gli uomini, ma potenzialmente tutti) non ha imparato a gestire le emozioni, non vuole capire la distruttività dell’orgoglio, mal interpreta da sempre il senso dell’onore e non riesce a rinunciare alla volontà punitiva che il codice Rocco, fino a 40 anni fa, considerava come motivo di diminuzione della pena, giustificando il “cagionare la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia”. 

E vogliamo parlare dello ius corrigendi (“il potere correttivo del pater familias che comprendeva anche la forza”)? Fino al 1956, il padre di famiglia aveva il potere di educare e punire, anche con la violenza, moglie e figli che non si comportavano secondo i propri diktat. Quest’orrendo potere dell’uomo, e lo schifoso concetto del delitto d’onore, purtroppo, secondo me, sono rimasti nell’immaginario maschile e impediscono l’evolversi della cultura sociale. E, dunque, il comprendere che la volontà di potere e di possesso degli uomini è da reprimere fin dai primi anni di vita, con lo scopo di annientarla. La strada per sconfiggere la violenza maschile è lunghissima e in salita. Vedremo il traguardo solo quando la fiducia, il rispetto e la condivisione reciproci prenderanno il posto della paura di ogni donna e dell’ossessivo potere di controllo di troppi uomini. Quando?